Un ironico e amaro squarcio sulla vita dei giovani d'oggi alla ricerca di un lavoro stabile e di una prospettiva di vita su cui costruire certezze: la scrittura vivace e pungente di Silvia Pallai ci fa un quadro autobiografico di una realtà condivisa da tantissimi, oggi più che mai. Ma con la perseveranza e il talento alla fine si trova speranza e successo.
di Silvia Pallai, 2010
«Silvia, devi laurearti perché la laurea
non solo ti dà accesso ad una vasta cultura, ma ti permette di ottenere una
buona posizione in società, di goderti la vita con i frutti del tuo lavoro e
possedere un’indipendenza economica».
Queste sono parole proferite da mia madre
dieci anni or sono, a tutt’oggi mi fanno sorridere; è un sorriso amaro che porta
dentro di sé molte mortificazioni e, perché no, sottomissioni.
La laurea è vero mi ha dato accesso ad una
vasta cultura o per lo meno mi ha iniziata al senso delle cose e al valore
inestimabile di un libro e di quello che racconta, non solo, ha ampliato i miei
orizzonti, ha nutrito le mie aspettative ed ambizioni. Questo pezzo di carta tanto importante e tanto sudato rappresenta per ognuno di noi
studenti un percorso, una storia, un viaggio alla ricerca di un futuro, una
coscienza culturale ed una sensibilità intellettuale.
Tuttavia la laurea, tradotta nei termini
correnti, altro non è che una via d’accesso diretta e preferenziale per il
cosiddetto mondo dello stage, altresì
definito da noi giovani come un’esperienza pseudo
lavorativa atta a sfruttare l’operato di menti ed energie neolaureate, la
cui ricompensa si basa su un auto elogio o una pacca sulle spalle quanto più
ironica, di un capo o chi per esso che il più delle volte non ti riconosce come
essere umano dotato di nome proprio, ma, semplicemente, come lo stagista schiavo, vale a dire colui che adempie ai compiti più ordinari e
scadenti che il normale dipendente tenta di schivare con sofisticate ed abili
mosse e stratagemmi.
Credo sia importate descrivere quanto più
visivamente uno schema del mondo del lavoro sul grado di importanza e
sfruttamento esistente, ebbene: al primo posto abbiamo sicuramente lo stage, figlio di quello che una volta veniva
definito tirocinio, consiste in un periodo formativo atto ad affiancare il
giovane a professionisti del settore, in modo da poter crescere e maturare, al
fine di divenire una risorsa importate da inserire nell’organico dell’azienda.
Attenzione: essendo una prestazione lavorativa sarebbe opportuno un rimborso
spese come accade in molti paesi europei, ma non certo nel nostro che ha
interpretato lo stage come
un’opportunità di percepire forza lavoro giovane e fresca a costo zero; grandi
sorrisi, false promesse in una pratica abusata che quasi mai evolve in un impiego a
tutti gli effetti.
Al secondo posto c’è il contratto di
collaborazione occasionale: nato per quelle prestazioni occasionali la cui
durata complessiva nell’anno solare non supera i 30 giorni, o almeno così
dovrebbe essere; insieme allo stage è
molto in voga tra noi giovani, c’è chi ne fa una vera e propria collezione…
Al terzo posto: il contratto a progetto
co.co.pro. che definisce il lavoratore non come un dipendente, ma un
collaboratore autonomo. L’attività svolta dal collaboratore, infatti, deve
essere legata alla realizzazione di un progetto (o programma di lavoro, o fasi
di esso). Il lavoratore deve svolgere il suo operato in maniera autonoma e non
dovrebbe essere sottoposto al potere direttivo del superiore. Raggiungere
questo terzo posto che, sinceramente, non assicura nulla è per noi motivo di
vanto.
I posti a seguire non li menziono neppure
perché impossibili da raggiungere… per chi se lo stesse chiedendo, mi riferisco
ai contratti di tipo determinato ed indeterminato.
Io sono una vera e propria collezionista,
ad oggi con un’esperienza lavorativa di cinque anni mi vanto di aver intrapreso
numero 4 stage privi di alcuna
retribuzione e ben 7 contratti di collaborazione occasionale, stendiamo un velo
pietoso sulla questione stipendio, anche quest’ultima parola è ormai in disuso
nel mio mondo lavorativo, definiamola (tra di noi) cifra simbolica occasionale…
Paradossalmente io posso definirmi
fortunata perché in tutta la mia carriera
stagistica sono sempre riuscita ad apprendere molto e a maturare diverse
competenze anche se questo non ha significato, necessariamente, approdare ad un
impiego o anche solo ad una firma contrattuale. Quello che voglio dire è che
molto spesso l’occasione dello stage
per un’azienda si trasforma nell’intento di impiegare lo studente in mansioni
banali come l’addetto alle fotocopie o quant’altro. Lungi da me far critica,
sono figure necessarie anche queste, ma sarebbe gradito che al magnifico
colloquio, la persona incaricata non ci facesse credere di poter conquistare le
cime dell’Everest, ma semplicemente la sala caffè dell’ufficio (sempre che ne
abbiano una).
Torniamo ai miei stage, ebbene, dei quattro intrapresi ben tre sono avvenuti in
trasferta, fuori Milano, con necessità di pernottamento altrove; pernottamento
che ho dovuto pagare con i miei risparmi. Anche qui si rischia di entrare in
una situazione paradossale: ad un punto della mia vita, non molto lontano da
oggi (e penso che tutto ciò si ripresenterà, perché non c’è mai fine) mi
trovavo a lavorare come studentessa collaboratrice nella biblioteca
dell’università, per poter guadagnarmi il denaro necessario da investire come
sostentamento per un altro lavoro non retribuito… un gatto che si morde la coda.
Naturalmente la domanda che può sorgere, a
ragion veduta, è: ma perché accettare uno stage
così sconveniente? Perché qualcuno ci racconta che, e cito una frase che noi
giovani ripetiamo allo sfinimento, “tutto fa curriculum” e perché l’esperienza
che mi si proponeva era più unica che rara e, dunque, si stringono i denti e si
affronta ogni cosa.
Certo che se qualcuno mi avesse detto che
la stessa esperienza l’avrei ripetuta nuovamente e a retribuzione zero per due
volte di fila, avrei riso, ma invece è accaduto! Il perché non lo so, è anche
vero che molto spesso ci ritroviamo in un vortice e subentrano non solo
pressioni psicologiche, ma anche rapporti d’amicizia e di fiducia che ti
portano a scelte inaspettate.
Tutto ciò non può definirsi un’assurdità
perché quest’esperienza posso, a conti fatti, annoverarla tra una delle
migliori della mia vita lavorativa poiché, concedetemelo, di carriera qui non
si può proprio parlare.
Ora subentriamo in un’altra situazione paradossale:
sono stata più salvaguardata e rispettata nei 4 stage che nella maggior parte dei lavori adempiuti. Cerco di
spiegarmi con esempi per lo più eloquenti, riferendomi agli ultimi recenti
accaduti: un giorno qualcuno ti telefona e ti invita ad un colloquio nel quale,
sempre questo qualcuno, ti spiega le tue mansioni, i tuoi obiettivi e perché no
le tue possibilità di carriera, ti parla di un contratto e con esso di obblighi
e scadenze, di orari e giorni lavorativi. Ora il giovane neolaureato, seppur
con minima diffidenza, crede che ciò che gli viene detto sia, quanto meno, una
parziale verità, si convince che può accadere anche a lui questa fortuna
(nonostante la crisi) e accetta il posto di lavoro.
Ecco quello che non sa: non sa che non
firmerà mai un contratto e anzi che tale parola che ardirà sentire, diverrà un
tabù da pronunciare (bisognerà possedere un’indole da sovversivi, per far
valere i propri diritti!). Non sa che gli orari e i tempi definiti non verranno
rispettati e che non potrà avvalersi di quanto definito in sede contrattuale
perché di quel colloquio non rimane nulla di scritto (ma ci sono state così
tante parole che a cosa serve un documento cartaceo?). Non sa che verrà
prosciugato in tutte le sue energie, essendo considerato una pedina tra tante
(ma comunque una risorsa da valorizzare!). Non sa che il suo pezzo di carta non verrà più tenuto in
considerazione, né lui come persona da formare (del resto: “i giovani devono
imparare a farsi le ossa”).
Si troverà solo ad affrontare situazioni
psicologicamente grevi.
Così mi ritrovo nel vortice di un lavoro
che consideravo una fortuna e invece si rivela essere un tormento, senza
un’apparente possibilità di fuga. È vero non esiste un vincolo contrattuale, ma
a farsi travolgere dalla situazione basta niente e poi ti senti intrappolata,
non riesci a capire le dinamiche, o per lo meno all’inizio è impossibile e, in
un posto in cui ognuno cerca di sopravvivere come meglio può, è naturale che
l’ultima arrivata divenga la carta da giocare nei momenti di difficoltà e di
tensione.
Si può supporre, giustamente, che tutto
questo venga ripagato con un giusto premio in denaro, ma ecco che, rispetto
agli accordi, il tuo tempo lavorativo si moltiplica in maniera inversamente
proporzionale al tuo stipendio; cosa sono gli straordinari? “No, io, (il capo),
decido che non te li pago!”… E perché mai dovrei avere una vita al di fuori del
posto di lavoro? È una pretesa assurda! Mi pare ovvio!
Arrivi ad un punto in cui preghi di tornare
ad essere disoccupata, rimpiangi i duri anni di stage e questo non è per nulla qualcosa che può avvicinarsi alla
civiltà di una società!
Una volta mi è successo di dovermi
licenziare, perché la mia responsabile, dopo un giorno di assunzione, aveva
trovato un’altra ragazza, di buona e conosciuta famiglia, che, a suo parere,
avrebbe coperto il ruolo meglio di me… in pratica dopo un solo giorno, lei
aveva capito che io non ero adatta, ma non avendo il coraggio di sollevarmi
dall’incarico, ha attuato una serie di pressioni psicologiche al fine di
indurmi a lasciare il posto, in favore della nuova protetta. Stanca, ho mollato
la presa, del resto, anche qui, non esisteva qualcosa di scritto: un saluto e
un ringraziamento per i miei giorni lavorativi tramite una busta bianca al cui
interno non vi era nemmeno lo stipendio adeguato, lascio alla vostra fantasia
il possibile compenso…
Ebbene, il giorno in cui firmerò un
contratto che prevederà un tempo di lavoro più lungo di tre mesi, forse potrò
dire di aver raggiunto un obiettivo o quanto meno, di aver fatto una conquista.
L’ironia? Tutt’oggi quando parlo con
qualcuno più adulto di me e con esperienza mi sento sempre ripetere la medesima
frase: “Quando lavorerai capirai cosa significa…” e allora mi viene da pensare:
ma perché io finora cosa ho fatto?!
È interessante osservare la società attuale
piena di contraddizioni e non sense,
lo è ancora di più trovarsi a sorseggiare una birra con amici e scambiarsi
fatti di vita vissuta incredibili e assurdi che stenti a definire reali, ma che
ognuno di noi porta con sé come trofei da lucidare in onore della propria
laurea.
Così c’è chi non viene assunto perché “ha
troppa esperienza” o perché “sa troppo bene l’inglese” (sinceramente per
entrambi i casi non sapevo che queste conoscenze rappresentassero dei
deterrenti per l’assunzione in un posto di lavoro). Viceversa, può capitare,
data la discontinuità del mondo lavorativo e l’adorazione dell’attuale società
di contratti di collaborazione a breve termine, che qualcuno possegga
moltissime esperienze di lavoro e “questo è male: significa che sei incostante
e non aspiri ad una stabilità” (interessante e geniale concepire una tale
elucubrazione mentale). Può capitare che chi lavora tranquillamente, sicuro di
ciò che fa, dopo mesi di lavoro, al momento del rinnovo del contratto, viene a
scoprire che il suo lavoro, di appena pochi mesi, ha portato al crollo
l’azienda e che quindi, per bontà, verrà rinnovato con un contratto di un mese
in cui dovrà darsi degli obiettivi, in modo da poter risollevare l’azienda (tutto
ciò si commenta da solo). Infine può accadere che dopo mesi di lavoro, sei in
attesa del tuo stipendio che nel frattempo ha maturato sei mensilità e ti
ritrovi a dover abbattere la porta dell’amministrazione al fine di poter
ottenere ciò che meriti (ponendoti nella condizione di mendicare un tuo
diritto); potrei proseguire, ma preferisco porre un punto su questo disagio
sociale.
Nell’osservare la mia condizione e quella
dei miei coetanei, riflettendo sugli anni di studio, mi sembra opportuno
parlare di un’altra, a mio parere, assurdità, e vale a dire il costo eccessivo
dei Master di specializzazione. Quest’ultimi ti assicurano una formazione distintiva e perché no accrescitiva
rispetto al mondo universitario, garanti, per lo più, di farti conquistare o
meglio accedere in maniera agevole al mondo del lavoro. Ebbene, sia pure: ma se
dopo tutto questo investimento in termini monetari e di istruzione, lo studente
si ritrova ad affrontare uno stage gratuito e il mondo della precarietà; o
se dopo il dottorato, il giovane ricercatore non può proseguire la sua
attività; a che pro tutto ciò? Questa è una delle tante domande che aleggiano
sopra un vuoto cosmico…
Comunque, c’è qualcuno che ce l’ha fatta e
possiede un contratto, a volte anche a tempo determinato, sono pochi, ma mi
danno la speranza. Del resto credo che ogni esperienza vada presa com’è e
invece di affliggermi e perdermi d’animo, mi faccio carico del mio vissuto e mi
immergo in una nuova battaglia sempre più coscienziosa e disillusa.
A volte mi tornano alla mente le parole di
mie madre e allora mi ricordo quando da piccola immaginavo il mio futuro: donna
di successo, felice e soddisfatta… non è ancora così, ma non è mai tardi per
continuare a sperare.
una chiara e spietata finestra sul mondo del lavoro di oggi, storie che anche mia figlia ha vissuto.
RispondiEliminaStò cercando di capire cosa e successo, quale è stato il susseguirsi degli avvenimenti e degli sviluppi della nostra società da quando io laureatomi nel 1968 in Ingegneria a 24 anni ricevetti a casa 11 lettere di aziende che volevano assumermi a tempo indeterminato.
Flavio Massazza