domenica 7 aprile 2013

Giovani, lavoro, futuro: "Silvia" un racconto di Silvia Pallai


Un ironico e amaro squarcio sulla vita dei giovani d'oggi alla ricerca di un lavoro stabile e di una prospettiva di vita su cui costruire certezze: la scrittura vivace e pungente di Silvia Pallai ci fa un quadro autobiografico di una realtà condivisa da tantissimi, oggi più che mai. Ma con la perseveranza e il talento alla fine si trova speranza e successo.



"Silvia"
 di Silvia Pallai, 2010



«Silvia, devi laurearti perché la laurea non solo ti dà accesso ad una vasta cultura, ma ti permette di ottenere una buona posizione in società, di goderti la vita con i frutti del tuo lavoro e possedere un’indipendenza economica». 
Queste sono parole proferite da mia madre dieci anni or sono, a tutt’oggi mi fanno sorridere; è un sorriso amaro che porta dentro di sé molte mortificazioni e, perché no, sottomissioni.

La laurea è vero mi ha dato accesso ad una vasta cultura o per lo meno mi ha iniziata al senso delle cose e al valore inestimabile di un libro e di quello che racconta, non solo, ha ampliato i miei orizzonti, ha nutrito le mie aspettative ed ambizioni. Questo pezzo di carta tanto importante e tanto sudato rappresenta per ognuno di noi studenti un percorso, una storia, un viaggio alla ricerca di un futuro, una coscienza culturale ed una sensibilità intellettuale.
Tuttavia la laurea, tradotta nei termini correnti, altro non è che una via d’accesso diretta e preferenziale per il cosiddetto mondo dello stage, altresì definito da noi giovani come un’esperienza pseudo lavorativa atta a sfruttare l’operato di menti ed energie neolaureate, la cui ricompensa si basa su un auto elogio o una pacca sulle spalle quanto più ironica, di un capo o chi per esso che il più delle volte non ti riconosce come essere umano dotato di nome proprio, ma, semplicemente, come lo stagista schiavo, vale a dire colui che adempie ai compiti più ordinari e scadenti che il normale dipendente tenta di schivare con sofisticate ed abili mosse e stratagemmi.

Credo sia importate descrivere quanto più visivamente uno schema del mondo del lavoro sul grado di importanza e sfruttamento esistente, ebbene: al primo posto abbiamo sicuramente lo stage, figlio di quello che una volta veniva definito tirocinio, consiste in un periodo formativo atto ad affiancare il giovane a professionisti del settore, in modo da poter crescere e maturare, al fine di divenire una risorsa importate da inserire nell’organico dell’azienda. Attenzione: essendo una prestazione lavorativa sarebbe opportuno un rimborso spese come accade in molti paesi europei, ma non certo nel nostro che ha interpretato lo stage come un’opportunità di percepire forza lavoro giovane e fresca a costo zero; grandi sorrisi, false promesse in una pratica  abusata che quasi mai evolve in un impiego a tutti gli effetti.
Al secondo posto c’è il contratto di collaborazione occasionale: nato per quelle prestazioni occasionali la cui durata complessiva nell’anno solare non supera i 30 giorni, o almeno così dovrebbe essere; insieme allo stage è molto in voga tra noi giovani, c’è chi ne fa una vera e propria collezione…
Al terzo posto: il contratto a progetto co.co.pro. che definisce il lavoratore non come un dipendente, ma un collaboratore autonomo. L’attività svolta dal collaboratore, infatti, deve essere legata alla realizzazione di un progetto (o programma di lavoro, o fasi di esso). Il lavoratore deve svolgere il suo operato in maniera autonoma e non dovrebbe essere sottoposto al potere direttivo del superiore. Raggiungere questo terzo posto che, sinceramente, non assicura nulla è per noi motivo di vanto.
I posti a seguire non li menziono neppure perché impossibili da raggiungere… per chi se lo stesse chiedendo, mi riferisco ai contratti di tipo determinato ed indeterminato.

Io sono una vera e propria collezionista, ad oggi con un’esperienza lavorativa di cinque anni mi vanto di aver intrapreso numero 4 stage privi di alcuna retribuzione e ben 7 contratti di collaborazione occasionale, stendiamo un velo pietoso sulla questione stipendio, anche quest’ultima parola è ormai in disuso nel mio mondo lavorativo, definiamola (tra di noi) cifra simbolica occasionale…
Paradossalmente io posso definirmi fortunata perché in tutta la mia carriera stagistica sono sempre riuscita ad apprendere molto e a maturare diverse competenze anche se questo non ha significato, necessariamente, approdare ad un impiego o anche solo ad una firma contrattuale. Quello che voglio dire è che molto spesso l’occasione dello stage per un’azienda si trasforma nell’intento di impiegare lo studente in mansioni banali come l’addetto alle fotocopie o quant’altro. Lungi da me far critica, sono figure necessarie anche queste, ma sarebbe gradito che al magnifico colloquio, la persona incaricata non ci facesse credere di poter conquistare le cime dell’Everest, ma semplicemente la sala caffè dell’ufficio (sempre che ne abbiano una).
Torniamo ai miei stage, ebbene, dei quattro intrapresi ben tre sono avvenuti in trasferta, fuori Milano, con necessità di pernottamento altrove; pernottamento che ho dovuto pagare con i miei risparmi. Anche qui si rischia di entrare in una situazione paradossale: ad un punto della mia vita, non molto lontano da oggi (e penso che tutto ciò si ripresenterà, perché non c’è mai fine) mi trovavo a lavorare come studentessa collaboratrice nella biblioteca dell’università, per poter guadagnarmi il denaro necessario da investire come sostentamento per un altro lavoro non retribuito… un gatto che si morde la coda.
Naturalmente la domanda che può sorgere, a ragion veduta, è: ma perché accettare uno stage così sconveniente? Perché qualcuno ci racconta che, e cito una frase che noi giovani ripetiamo allo sfinimento, “tutto fa curriculum” e perché l’esperienza che mi si proponeva era più unica che rara e, dunque, si stringono i denti e si affronta ogni cosa.
Certo che se qualcuno mi avesse detto che la stessa esperienza l’avrei ripetuta nuovamente e a retribuzione zero per due volte di fila, avrei riso, ma invece è accaduto! Il perché non lo so, è anche vero che molto spesso ci ritroviamo in un vortice e subentrano non solo pressioni psicologiche, ma anche rapporti d’amicizia e di fiducia che ti portano a scelte inaspettate.
Tutto ciò non può definirsi un’assurdità perché quest’esperienza posso, a conti fatti, annoverarla tra una delle migliori della mia vita lavorativa poiché, concedetemelo, di carriera qui non si può proprio parlare.
Ora subentriamo in un’altra situazione paradossale: sono stata più salvaguardata e rispettata nei 4 stage che nella maggior parte dei lavori adempiuti. Cerco di spiegarmi con esempi per lo più eloquenti, riferendomi agli ultimi recenti accaduti: un giorno qualcuno ti telefona e ti invita ad un colloquio nel quale, sempre questo qualcuno, ti spiega le tue mansioni, i tuoi obiettivi e perché no le tue possibilità di carriera, ti parla di un contratto e con esso di obblighi e scadenze, di orari e giorni lavorativi. Ora il giovane neolaureato, seppur con minima diffidenza, crede che ciò che gli viene detto sia, quanto meno, una parziale verità, si convince che può accadere anche a lui questa fortuna (nonostante la crisi) e accetta il posto di lavoro.
Ecco quello che non sa: non sa che non firmerà mai un contratto e anzi che tale parola che ardirà sentire, diverrà un tabù da pronunciare (bisognerà possedere un’indole da sovversivi, per far valere i propri diritti!). Non sa che gli orari e i tempi definiti non verranno rispettati e che non potrà avvalersi di quanto definito in sede contrattuale perché di quel colloquio non rimane nulla di scritto (ma ci sono state così tante parole che a cosa serve un documento cartaceo?). Non sa che verrà prosciugato in tutte le sue energie, essendo considerato una pedina tra tante (ma comunque una risorsa da valorizzare!). Non sa che il suo pezzo di carta non verrà più tenuto in considerazione, né lui come persona da formare (del resto: “i giovani devono imparare a farsi le ossa”).
Si troverà solo ad affrontare situazioni psicologicamente grevi.
Così mi ritrovo nel vortice di un lavoro che consideravo una fortuna e invece si rivela essere un tormento, senza un’apparente possibilità di fuga. È vero non esiste un vincolo contrattuale, ma a farsi travolgere dalla situazione basta niente e poi ti senti intrappolata, non riesci a capire le dinamiche, o per lo meno all’inizio è impossibile e, in un posto in cui ognuno cerca di sopravvivere come meglio può, è naturale che l’ultima arrivata divenga la carta da giocare nei momenti di difficoltà e di tensione.
Si può supporre, giustamente, che tutto questo venga ripagato con un giusto premio in denaro, ma ecco che, rispetto agli accordi, il tuo tempo lavorativo si moltiplica in maniera inversamente proporzionale al tuo stipendio; cosa sono gli straordinari? “No, io, (il capo), decido che non te li pago!”… E perché mai dovrei avere una vita al di fuori del posto di lavoro? È una pretesa assurda! Mi pare ovvio!
Arrivi ad un punto in cui preghi di tornare ad essere disoccupata, rimpiangi i duri anni di stage e questo non è per nulla qualcosa che può avvicinarsi alla civiltà di una società!
Una volta mi è successo di dovermi licenziare, perché la mia responsabile, dopo un giorno di assunzione, aveva trovato un’altra ragazza, di buona e conosciuta famiglia, che, a suo parere, avrebbe coperto il ruolo meglio di me… in pratica dopo un solo giorno, lei aveva capito che io non ero adatta, ma non avendo il coraggio di sollevarmi dall’incarico, ha attuato una serie di pressioni psicologiche al fine di indurmi a lasciare il posto, in favore della nuova protetta. Stanca, ho mollato la presa, del resto, anche qui, non esisteva qualcosa di scritto: un saluto e un ringraziamento per i miei giorni lavorativi tramite una busta bianca al cui interno non vi era nemmeno lo stipendio adeguato, lascio alla vostra fantasia il possibile compenso…
Ebbene, il giorno in cui firmerò un contratto che prevederà un tempo di lavoro più lungo di tre mesi, forse potrò dire di aver raggiunto un obiettivo o quanto meno, di aver fatto una conquista.
L’ironia? Tutt’oggi quando parlo con qualcuno più adulto di me e con esperienza mi sento sempre ripetere la medesima frase: “Quando lavorerai capirai cosa significa…” e allora mi viene da pensare: ma perché io finora cosa ho fatto?!

È interessante osservare la società attuale piena di contraddizioni e non sense, lo è ancora di più trovarsi a sorseggiare una birra con amici e scambiarsi fatti di vita vissuta incredibili e assurdi che stenti a definire reali, ma che ognuno di noi porta con sé come trofei da lucidare in onore della propria laurea.
Così c’è chi non viene assunto perché “ha troppa esperienza” o perché “sa troppo bene l’inglese” (sinceramente per entrambi i casi non sapevo che queste conoscenze rappresentassero dei deterrenti per l’assunzione in un posto di lavoro). Viceversa, può capitare, data la discontinuità del mondo lavorativo e l’adorazione dell’attuale società di contratti di collaborazione a breve termine, che qualcuno possegga moltissime esperienze di lavoro e “questo è male: significa che sei incostante e non aspiri ad una stabilità” (interessante e geniale concepire una tale elucubrazione mentale). Può capitare che chi lavora tranquillamente, sicuro di ciò che fa, dopo mesi di lavoro, al momento del rinnovo del contratto, viene a scoprire che il suo lavoro, di appena pochi mesi, ha portato al crollo l’azienda e che quindi, per bontà, verrà rinnovato con un contratto di un mese in cui dovrà darsi degli obiettivi, in modo da poter risollevare l’azienda (tutto ciò si commenta da solo). Infine può accadere che dopo mesi di lavoro, sei in attesa del tuo stipendio che nel frattempo ha maturato sei mensilità e ti ritrovi a dover abbattere la porta dell’amministrazione al fine di poter ottenere ciò che meriti (ponendoti nella condizione di mendicare un tuo diritto); potrei proseguire, ma preferisco porre un punto su questo disagio sociale.

Nell’osservare la mia condizione e quella dei miei coetanei, riflettendo sugli anni di studio, mi sembra opportuno parlare di un’altra, a mio parere, assurdità, e vale a dire il costo eccessivo dei Master di specializzazione. Quest’ultimi ti assicurano una formazione distintiva e perché no accrescitiva rispetto al mondo universitario, garanti, per lo più, di farti conquistare o meglio accedere in maniera agevole al mondo del lavoro. Ebbene, sia pure: ma se dopo tutto questo investimento in termini monetari e di istruzione, lo studente si ritrova ad affrontare uno stage gratuito e il mondo della precarietà; o se dopo il dottorato, il giovane ricercatore non può proseguire la sua attività; a che pro tutto ciò? Questa è una delle tante domande che aleggiano sopra un vuoto cosmico…

Comunque, c’è qualcuno che ce l’ha fatta e possiede un contratto, a volte anche a tempo determinato, sono pochi, ma mi danno la speranza. Del resto credo che ogni esperienza vada presa com’è e invece di affliggermi e perdermi d’animo, mi faccio carico del mio vissuto e mi immergo in una nuova battaglia sempre più coscienziosa e disillusa.
A volte mi tornano alla mente le parole di mie madre e allora mi ricordo quando da piccola immaginavo il mio futuro: donna di successo, felice e soddisfatta… non è ancora così, ma non è mai tardi per continuare a sperare.

1 commento:

  1. una chiara e spietata finestra sul mondo del lavoro di oggi, storie che anche mia figlia ha vissuto.
    Stò cercando di capire cosa e successo, quale è stato il susseguirsi degli avvenimenti e degli sviluppi della nostra società da quando io laureatomi nel 1968 in Ingegneria a 24 anni ricevetti a casa 11 lettere di aziende che volevano assumermi a tempo indeterminato.
    Flavio Massazza

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