sabato 20 agosto 2016

"Sinfonia nera in quattro tempi": l'incipit

PRIMO TEMPO  -   MAL DI PSICHE , MAL DI CUORE

Legnano 2003: la demolizione del Cotonificio Cantoni
location del delitto in  Mal di Psiche, Mal di cuore
Non t’amo se non perché t’amo
e dall’amarti a non amarti giungo
e dall’attenderti quando non t’attendo
passa dal freddo al fuoco il mio cuore.
Ti amo solo perché io te amo
senza fine io t’odio, e odiandoti ti prego,
e la misura del mio amor viandante
è non vederti e amarti come un cieco.
Forse consumerà la luce di Gennaio
il raggio crudo, il mio cuore intero,
rubandomi la chiave della calma.
In questa storia solo io muoio
e morirò d’amore perché t’amo,
perché t’amo, amore, a ferro e fuoco.
( Pablo Neruda, “Cento sonetti d’amore”, n° LXVI)


MARTEDÌ

Solo lo scheletro, quello che restava della vecchia fabbrica tessile, incombeva su cumuli di macerie grigie nella mattinata invernale, fredda cupa e brumosa, proprio come ti aspetteresti da una mattinata invernale padana.
Un dinosauro meccanico arancione dal lungo collo masticava lentamente, con le possenti ganasce, i vecchi muri gloriosi di lavoro e di storia, causando un sinistro fragore e nubi di polvere. Un altro dinosauro più piccolo, giallo, arrancava in salita sulle macerie, lanciando a intermittenza biiip laceranti.
Il maresciallo Adelio Rusconi tirò un profondo respiro, si strinse nelle spalle rabbrividendo, e osservò con una smorfia schifata la nuvola di vapore del suo fiato. Indeciso sul percorso da scegliere in mezzo a quello sfacelo di pietre e ferro arrugginito, rivide nella mente la vecchia fabbrica ottocentesca di mattoni rossi con le architravi bianche, architettura fin troppo bella ed elegante per essere stata un sito industriale, grande area adesso sacrificata alla costruzione di nuove residenze.
Il vecchio stabilimento aveva dato lavoro a migliaia di operai per cent’anni, anche a quelli della sua famiglia, pace all’anima loro, tessitori o metalmeccanici in una grande industria a un passo da lì.
«Che tempo appiccicoso: che ci sto a fare ancora qui?» borbottava intanto il brigadiere Tommaso Lo Monaco, detto Totò, che camminava a qualche metro di distanza e perlustrava con occhio attento il terreno, un po’ per dovere e un po’ per distrarsi, perché anch’egli era intirizzito, ben stretto nella giacca a vento.
Con un altro incomprensibile mugugno fece un lungo respiro per allucinare il profumo del mare e dei fiori di limone, il suono del vento e delle onde, i colori forti delle Eolie e del natio golfo di Catania.
«Scommetto che troveremo gli altri dietro quel muro diroccato e quelle finte colline di pietre.»
Totò aveva cinquant’anni o giù di lì, bassotto, tarchiato e con il ventre prominente, non proprio grasso, ma tracagnotto come si dice da queste parti. Né bello né brutto, occhiali sul naso e occhi scuri, vigili e attenti, sempre all’erta – il meglio per un investigatore! – pochi capelli e baffi brizzolati, qualche piega sul viso vissuto e un forte accento siciliano che si portava dietro, come un vanto, anche dopo trent’anni in Lombardia.
Adelio Rusconi, il suo capo, era lombardo purosangue, ma gli sarebbe piaciuto diventare una star come il commissario Montalbano, il famoso poliziotto protagonista dei gialli di Camilleri. Beh, lui era tutt’altra cosa rispetto a Totò: sui quarant’anni, un metro e novanta, centimetro più centimetro meno, fisico perfetto, palestrato ma non troppo, una bella faccia – quando si guardava allo specchio al mattino diceva a se stesso che era un gran bel maschio – tanti capelli quasi neri, naso un po’ grande e lungo, ma dritto, occhi scuri: aveva forse qualche antenato guerriero nella famosa Compagnia della Morte? Quei prodi che a fianco di Alberto da Giussano avevano sconfitto il Barbarossa nella Battaglia di Legnano.
Altro che Salvo Montalbano, calvo come una palla da biliardo, con le gambe storte e sicuramente piccolo piccolo: Adelio sì che avrebbe fatto figura in tivù! Però aveva letto l’opera omnia di Andrea Camilleri, anzi, l’aveva studiata, aveva visto tutti i film del commissario siciliano e li conosceva a memoria, battuta per battuta, per impararne tutti i segreti investigativi… e sotto sotto avrebbe dato anche tutti i suoi capelli per essere così bravo… ma si stava esercitando. Però i delitti straordinari che capitavano nell’immaginaria Vigata sembravano disertare quella città dell’hinterland milanese dove tutti sembravano votati alla cultura del lavoro e non avevano molto tempo da dedicare all’arte del delitto.
Totò Lo Monaco aveva faticosamente raggiunto il diploma di ragioniere nella natia Nicolosi, alle pendici dell’Etna, a un tiro di schioppo da Catania, ma tra tutti i conoscenti era noto per la sua serietà, prudenza e attenzione ai particolari.
Adelio naturalmente era dottore, con tanto di laurea appesa nel suo ufficio al Comando dei carabinieri insieme a un gran numero di diplomi: perfino paracadutista era! E su una mensola scintillava un trofeo: te lo vedi in tenuta di gala, a cavallo durante la carica in piazza di Siena o a un concorso ippico?
Totò provava un morso d’invidia tutte le volte che guardava la coppa: non era mai riuscito a salire a cavallo senza rimanere completamente atterrito… e atterrato. Paura panico disperazione e ossa rotte o quasi. Piccola rivincita: aveva scoperto che Adelio, con tutti i titoli, i diplomi e la laurea, riusciva a infarcire i verbali di errori proprio come faceva lui!
Pur con tutte le differenze, tra loro c’erano grande amicizia e cameratismo: nonostante il loro lavoro fosse sempre a contatto con le cose peggiori della vita e degli esseri umani, riuscivano anche a mantenere leggerezza e allegria.
«Totò… sbrigati! Che cosa ti ha incantato?» Adelio aveva finalmente aggirato le macerie e aveva incontrato un gruppetto di gente intorno a una buca. Dentro, un cadavere.
«Ci si abitua mai alla vista e all’odore del sangue?» si chiese Adelio, storcendo il nobile naso. Totò sembrava più corazzato e camminava a passo deciso intorno alla buca, osservando attentamente i particolari.

La donna era in una posizione scomposta.
«L’hanno buttata giù come un sacco di stracci e l’hanno finita con un bel taglio netto alla gola, da orecchio a orecchio.»
«E quante coltellate le hanno dato? Prima o dopo la morte? C’è tanto sangue nella buca.»
La dottoressa Hofer, medico legale, aveva finito intanto il suo lavoro.
«Che ne dice?» le domandò il maresciallo.
«La sua ipotesi sarà confermata o no con l’autopsia. Attenda il referto.»
Aveva la voce gelida come un frigorifero dell’obitorio in cui lavorava e un certo accento tedesco – veniva dalle valli svizzere, sicuramente le più innevate – ma era un’affascinante bruna, poco più che quarantenne, molto alta, elegante e con le curve al punto giusto. Come sempre quando la incontrava, Adelio, che di solito guardava le donne da capo a piedi, soffermandosi sui particolari più interessanti, fu attratto soltanto dalle sue belle mani, giusto per regalarsi il brivido di un’emozione che non aveva ancora capito – paura, orrore, fascinazione, mah… Come faceva a sezionare cadaveri e a manipolare morti (ammazzati e non) la bella e dolce dottoressa? Forse il segreto stava proprio nella sua voce polare, nell’aver gelato le emozioni.

Intanto i colleghi della Scientifica facevano i loro rilevamenti e Totò era sceso nella buca per osservare da vicino: Adelio lo seguì e insieme cominciarono lentamente a valutare ogni centimetro del corpo e del luogo dove era stato buttato. Nessuna traccia interessante. Niente di niente. Cominciarono l’esplorazione del suolo circostante la buca girando in cerchi concentrici.
La bruma cominciava a diradarsi e il sole a intiepidire l’aria, per fortuna. Un raggio provvidenziale colpì qualcosa di metallico nascosto tra i sassi. Un orecchino, un semplice pendente di perla, un po’ antiquato, con la montatura in oro di ottima fattura. Una perla bianca tra i sassi bianchi.
«Mah», disse Totò, «non sembra del cadavere, perché la donna morta non porta orecchini, anzi», andò a controllare, «non ha neppure il buco nel lobo delle orecchie!»
«E che ci fa un orecchino di perla in mezzo alle macerie? Nuova moda tra gli operai dei cantieri?»
«Certo che è stato abile a trasportare il corpo», disse Totò seguendo il filo dei suoi pensieri. «Le tracce sono poche. Doveva essere ancora viva: il sangue è tutto nella buca… ma qualche segno tra la ghiaia ci deve essere, lo troverà la Scientifica.»
«Anche se il percorso dalla strada a qui è molto più breve di quanto sembrasse all’inizio, dev’essere stato molto faticoso: guarda lì, forse è passato su quella specie di ponte sul fiume. Forse un po’ ha trascinato e un po’ ha portato il corpo.»
«Non c’è dubbio che conoscesse il terreno: potrebbe essere una persona addetta ai cantieri.»
«Già. Torniamo alla buca.»

Il cadavere era stato composto e stava per essere infilato in un sacco di plastica, in attesa di essere portato all’obitorio, nelle belle mani dell’inesorabile dottoressa Hofer. Guardarono la morta ancora una volta.
Era stata una donna sui cinquant’anni, di corporatura media, né grassa né magra, viso piacevole, con poche rughe e pelle curata, capelli del color mogano che molte donne di quell’età scelgono per coprire i capelli bianchi. Indossava un bel cappotto marrone, maglione e pantaloni di buona qualità, qualche gioiello sobrio ma di classe.
«Tutto lacerato dalle coltellate, forse inferte con rabbia e voglia di infierire sul corpo. E in molti punti stracciato dalle pietre su cui è stata trascinato. Una donna normale, della classe media. Che avrà fatto per essere uccisa?» bofonchiò il brigadiere con aria truce.
Mentre la Scientifica finiva il suo lavoro e portava via il cadavere i due carabinieri si avvicinarono a un gruppetto di sei operai infreddoliti che li attendevano per essere interrogati.
Anche qui pochi risultati. Il cantiere doveva essere chiuso per il ponte di Capodanno, ma, dato che avevano bisogno di quattrini, i sei uomini avevano deciso di fare gli straordinari e avevano ripreso a lavorare per sgomberare le macerie da quelli che erano una volta i viali interni del complesso industriale.
Arrivati lì alle otto del mattino, avevano visto nella buca quella macchia rossa, avevano scoperto il cadavere nel sangue e chiamato immediatamente il 112. Erano stati convocati alla Stazione dei Carabinieri a formalizzare i verbali: per quei giorni niente più straordinari, tutti a casa.

Anche Adelio e Totò tornarono in ufficio: appena entrati ordinarono due caffè doppi per ciascuno e qualche panino. Mentre il brigadiere si scaldava vicino al calorifero, Adelio borbottava ad alta voce: «Un orecchino di perla e qualche traccia sul terreno. Tutto qui? Trenta metri tra la buca e la strada, il cancello d’accesso che invece di essere sprangato è aperto a tutti. La vittima deve essere stata stordita e gettata viva nella buca, almeno per alcuni tratti trasportata da una persona molto forte, tanto da riuscire a tenerla in braccio o sulle spalle, altrimenti avrebbe lasciato sangue e brandelli di carne ovunque sui sassi e i calcinacci. E si sarebbe di certo svegliata. Perché fare tutta quella fatica e poi lasciarla così visibile a tutti? Forse l’assassino non sapeva che il cantiere sarebbe stato aperto nonostante le feste. È stato un uomo di certo, e forte, molto forte. Oppure ha usato un mezzo che ha trovato sul posto.»
«Ecco il caffè e i panini. Ci volevano proprio.»
Entrambi ammutolirono e cominciarono a mangiare. Era evidente che il loro cervello stava funzionando all’unisono con le mascelle… e anche più velocemente. Non erano persone molto loquaci, ma si capivano al volo anche solo con lo sguardo. Continuarono per un po’ a masticare, a guardarsi, a pensare.

La via, vicino alla storica Strada Statale che collega Milano con il passo del Sempione, era abbastanza tranquilla, senza esagerare: il rumore e la portata del traffico riuscivano a penetrare fin lì. Dietro uno splendido cancello di ferro battuto, opera di un artigiano locale, si ergeva una villa nello stile neomedievale tipico dell’inizio del Novecento.
Era un edificio in mattoni rossi con parti decorative in pietra grigia attorno alle finestre e nei balconi, sculture a forma di drago, figure grottesche e floreali. Ferro battuto ovunque, nella città dell’industria metallurgica e metalmeccanica. La circondava un giardino con alberi ormai quasi centenari, curatissimo nella sua versione invernale, niente fiori e bacche rosse qua e là. Il nonno dell’attuale proprietario, un ingegnere del grande stabilimento, l’aveva fatta costruire secondo la moda del momento tra la classe dirigente locale.
Andrea Colombo arrivò al cancello a bordo del suo enorme Suv nero con i vetri oscurati, azionò il telecomando, entrò nella rimessa e, dopo aver chiuso la pesante, antica porta, si avviò verso l’ingresso.
«Sono tornato!» gridò entrando.
«Ciao, hai trovato traffico?» gli rispose una voce sottile e un po’ tremula. Andrea si avviò verso il soggiorno dove, su una vecchia bergère posta davanti al camino, stava seduta, dritta come una regina in trono, una donna di età indefinibile con i capelli bianchissimi, gli occhi chiari e freddi, gli occhiali sul naso e una coperta sulle ginocchia. Leggeva una rivista, reggendola con mani sottili deformate dall’artrite: le rughe sul suo volto marcavano un’espressione severa, giudicante.

Andrea sedette su una poltrona gemella e tese le mani verso il fuoco rabbrividendo. Era un uomo alto e massiccio, verso la sessantina, con molti capelli brizzolati, naso dritto e occhi scuri: doveva essere stato un bell’uomo, uno sciupafemmine in gioventù, e anche ora non era proprio male. Il fisico non era certo atletico, mai fatta ginnastica in vita sua, qualche chilo in più del necessario, la pancetta accuratamente rivestita con un abito da sartoria, camicia e cravatta, tutto in perfetta armonia. C’era qualcosa, un non so che di femminile, di infantile in lui, forse il taglio della bocca, la forma troppo morbida.
Nonostante il respiro un po’ pesante si accese una sigaretta, aspirando avidamente e cominciando subito a tossire.
«Sei cupo, che c’è?» chiese la madre. «E anche molto pallido: chiamo la Gina per portarti un tè.»
«Lascia stare, mi prendo un whisky», rispose lui un po’ acido, alzandosi e versandosi una tripla dose di liquore che trangugiò in un fiato, rimettendosi a tossire. Aveva modi voraci: era un divoratore di cose e di sensazioni.
«Vado di sopra, ho da fare un sacco di cose.» Inquieto anche, incapace di stare fermo un attimo.
La madre lo guardò con durezza da sopra gli occhiali, senza aprire bocca, poi rimise il naso nella rivista, mentre Andrea tornava nel corridoio, prendeva la borsa e saliva le scale ansimando, diretto in camera sua. Lì rovesciò il contenuto della borsa sul letto e, con la massima concentrazione, osservò tutto, proprio tutto. Poi si spogliò nudo ed esaminò anche i vestiti, le calze, le scarpe, la borsa, ogni centimetro del suo abbigliamento.
Soddisfatto, andò ad aprire l’acqua della vasca da bagno e, mentre attendeva che si riempisse, rimise tutto in ordine e sistemò la borsa in fondo all’armadio.

Maledetto affanno: quel respiro che sempre gli mancava… accese una sigaretta e si immerse nella vasca a occhi chiusi. Ma subito li spalancò, spaventato dall’immagine che aveva visto con la mente. Si agitò nell’acqua bofonchiando qualcosa e cominciò a insaponarsi e a spazzolarsi: sembrava che volesse togliersi di dosso qualcosa che si era attaccato alla pelle e grattò così forte da diventare di fuoco. Uscito dall’acqua si asciugò, si vestì con pantaloni comodi di velluto a coste e maglione morbido morbido in perfetta armonia, poi si sdraiò sul letto con un’altra dose abbondante di whisky e accese la tivù.
Girando tra i canali arrivò al telegiornale di una rete locale che stava trasmettendo il servizio su un orrendo delitto avvenuto la mattina presto proprio nella vecchia fabbrica a poche centinaia di metri da casa sua: una donna, sgozzata in una buca, di cui risparmiavano le immagini ai telespettatori. Con gli occhi sbarrati e la trentacinquesima sigaretta della giornata che entrava e usciva sempre più nervosamente dalla sua bocca ascoltò il servizio, poi spense bruscamente e si alzò per ingoiare una, no, meglio due, pastiglie di sonnifero.
«E se ne prendessi tre? Per sicurezza. No, lascia stare Andrea, smettila. Meglio un po’ di whisky, la botta finale. Tra una mezz’ora crolli… o no?»

continua.....

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