sabato 2 giugno 2018

Una rivoluzione culturale: il Sessantotto. Articolo di Uliano Andolfi

IL Sessantotto è stato un cambiamento decisivo nella mentalità collettiva dell’Italia e non solo che ha assunto la forma e la sostanza di una vera rivoluzione culturale.

Chi ha avuto la fortuna di vivere un momento storico di rara intensitàha partecipato a una rivoluzione culturale che, è vero, non ha toccato i centri del potere reale, ma ha influito profondamente sulla società e sul costume di questo paese, e lo ha migliorato.

articolo di Uliano Andolfi

Più che un anno solare, il Sessantotto è ormai diventato un periodo storico, un susseguirsi di eventi che va oltre le date e gli anni,è, di fatto, il nome di una rivoluzione che non essendo stata circoscritta ad un solo paese è impossibile identificare come le altre del passato. Quindi identifichiamolo pure come data, sapendo che data non fu. Fu l'anno più esplosivo del secondo dopoguerra: in tutto il mondo i giovani si rivoltarono contro le istituzioni, a partire dalle università. Una generazione entrò fragorosamente nella storia mentre la guerra del Vietnam giungeva a un punto di svolta, i carri armati sovietici soffocavano la Primavera di Praga, e negli Stati Uniti cadevano Malcom X, Martin Luther King e Robert Kennedy.
Il Sessantotto fu anche l’anno di Valle Giulia in Italia, del maggio francese, degli scontri alla Convenzione democratica di Chicago, delle Olimpiadi del Messico, bagnate dal sangue degli studenti uccisi a Piazza delle Tre Culture e segnate dalla protesta degli atleti neri, che sul podio alzavano il pugno guantato di nero. Continuiamo a chiederci anche noi che in un certo modo lo abbiamo vissuto, non potevamo non viverlo, anche per motivi generazionali, Dove-Come-Quando-Perché. Dove è iniziato, perché è scoppiato, quali caratteri ha avuto? 
Vi è un legame fra la protesta degli studenti di Berkeley e quelli della Sorbona, di Varsavia e di Torino, di Berlino e di Tokyo.  Ancora oggi mentre certo gli storici hanno fatto il loro lavoro noi, ormai settantenni abbiamo difficoltà a definirlo anche perché sembra mantenere il suo carattere divisivo a partire dalle declinazioni semantiche che lo qualificano: fedeltà o rimozione, modernità o conservazione, soggettività o distanza. Difficile uscire da una morsa che ha accompagnato il corso del mezzo secolo che abbiamo alle spalle, riconducibile al paradigma opprimente del ‘passato che non passa’ ripresentandosi sotto mentite spoglie di memorie contrapposte o in forme apertamente conflittuali. Certo per molti di noi si confonde deformandone i contenuti e nella nostalgia del come eravamo, il senso di una generazione che è stata segnata dagli appuntamenti con la storia in un anno così ricco di novità e che cerca di mantenere forti legami emotivi con un tempo che le apparteneva e che ora non c’è più. Un’ancora di certezze e rimpianti che mostra lo straordinario fascino e l’illusione di poter riavvolgere il nastro di un itinerario fatto di eventi, emozioni, speranze, storie, biografie, ma anche di luoghi di situazioni e persone. C’è anche però la critica che ostinatamente vuole ridimensionare, rimuovere, demolire un patrimonio di memorie e riferimenti comuni che ha attraversato un tratto di storia dell’Occidente. Non di un solo paese ma di tutto l’occidente dandone un connotatao universale che rimarrà sempre. In mezzo lo spazio stretto e difficile della storicizzazione: giudizi, interpretazioni, confronti a partire dalla complessità di un passaggio del dopoguerra che più che un evento isolabile o circoscrivibile prese le sembianze di un processo che si manifestò con modalità e tempi diversi in tutto l’occidente.
Per noi italiani sarebbe bene e direi fondamentale, non smarrire i punti di partenza nella società italiana di allora che aveva riconquistato libertà e democrazia. Cosa erano la scuola e l’università italiana? Da dove presero corpo le rivolte? Quali contraddizioni si scaricano sul sistema formativo incapace di reggere l’urto della scolarizzazione di massa dato che per la prima volta nella storia del paese arrivarono all’Università i figli dei contadini e degli operai.
Il ’68 degli studenti si legò inoltre al cosidetto autunno caldo dell’anno successivo, all’emergere di una conflittualità operaia con un’identità politica e rivendicativa, salari e contratti e generazionale, una nuova classe operaia entrata in fabbrica. Una specificità italiana il nesso e l’incontro tra studenti e operai, tra l’università e la fabbrica, tra il 1968 e il 1969 dovuta, appunto al salire sul palcoscenico della storia delle nuove generazioni di operai e studenti, figli di coloro che direttamente o indirettamente avevano combattuto il fascismo.
Ci fu molto spontaneismo e nella contestazione si confusero differenti umori e pulsioni ed il conflitto da latente diventò manifesto, esplicito. Un crinale tra due mondi; al tramonto del vecchio non corrispose per motivi che chiamerei geopolitici (guera fredda, chiesa, sviluppo industriale con bassi salari) una coerente e opera di rinnovamento della società italiana. Molto rimase in vita, resistette e si conservò, altro mutò parzialmente, altro ancora venne travolto dal protagonismo di nuove soggettività. La frattura fu trasversale, tra opportunità e chiusure, tra generazioni diverse, tra chi riusciva a beneficiare delle trasformazioni in atto e chi invece rimase emarginato, escluso e mortificato. Fu in questo quadro che speranze e illusioni mossero uomini e donne (per la prima volta nella società italiana) verso la ricerca di nuove possibilità in grado di rompere gabbie e condizionamenti della stratificazione sociale di partenzaFu anche la disperata ricerca di una mobilità possibile, ribaltando e rivoluzionando i vecchi schemi. Una tensione costante che continuò trovando nuovi interpreti superando il binomio amico-nemico imposta dalla guerra fredda. Il rapporto tra individuo e collettività, partiti, organizzazioni collettive, sindacati, entrò in crisi. Allora risultò sempre più difficile trovare un punto di equilibrio tra la soggettività individuale che chiedeva sempre di più e meglio e le forme di espressione e organizzazione della collettività esistenti.
Il Sessantotto nella sua lunga durata coinvolse direttamente una riflessione generale sul dopoguerra italiano, sul ruolo dei movimenti, sul peso di una stagione segnata dal protagonismo di soggettività e culture inedite. Una riflessione pienamente inserita nelle dinamiche del sistema internazionale. C’è ora il rischio che sfumino i ricordi, e si affievolisca il rimpianto per quel tempo lontano cosi, possono prendere corpo gli interrogativi e le ipotesi interpretative sulle grandi questioni che il Sessantotto sollevò. Il terremoto nel mondo comunista, la repressione violenta del riformismo cecoslovacco segnò la fine di Mosca come guida indiscussa del movimento comunista internazionale. E sull’altro versante la sporca guerra in Vietnam indebolì le basi del mito americano rendendolo vulnerabile e incerto. In quel periodo i modelli di riferimento persero terreno, mostrarono il volto contraddittorio del confronto storico bipolare del dopo guerra. L’inizio della fine dei partiti storici di massa si sovrappose e si accompagnò ai primi i sintomi diffusi sulla inadeguatezza del confronto Est-Ovest.
In quegli anni prevalgono i caratteri distintivi di un fenomeno globale (il Sessantotto appunto) quali l’ampiezza geografica e la simultaneità temporale. In Italia il Sessantotto si lega a una crisi più generale del sistema politico, all’indebolimento inesorabile della capacità dei partiti di essere tramite e filtro tra cittadini e istituzioni. La fine della centralità di formazioni politiche che avevano percorso i decenni del dopoguerra con la consapevolezza di essere i soggetti principali di una dialettica capace di includere e coinvolgere settori diversi della società italiana.
Gli stessi partiti di massa non furono in grado di comprendere la portata del fenomeno che sto cercando di esprimere: alcuni ne raccoglieranno l’eredità altri, soprattutto nella sinistra storica, avranno i benefici dell’ingresso di nuovi quadri dirigenti, ma il Movimento rimase ostile alla cultura e all’organizzazione dei partiti. Aldo Moro che probabilmnte aveva colto il segno di un tempo nuovo, scrisspiù volte del Sessantotto “Siamo davvero ad una svolta della storia e sappiamo che le cose sono irreversibilmente cambiate, non saranno ormai più le stesse”.
Reazionari e conservatori non perdono, oggi, l'occasione di attaccare il Movimento del Sessantotto, la sua realtà e i risultati che ha prodotto, non solo enfatizzandone gli errori, ma attribuendo a quella fase storica ogni evento negativo che si è verificato successivamente. Quasi che il Sessantotto sia stato una forza di potere e non, invece, un movimento di opposizione e di contestazione globale. In parte hanno ragione, perché se il Movimento non ha conquistato il potere politico ha però colonizzato gran parte delle coscienze nel nostro paese, portando a compimento una vera e propria rivoluzione culturale ed un profondo cambiamento nel vissuto sociale.
Combinandosi con diversi fattori e dando importanti contributi a tutte le battaglie civili degli anni Settanta, il Sessantotto ha dato un contributo significativo, per esempio, nella conquista dello Statuto dei lavoratori, nella battaglia sul divorzio e sull'aborto, ha prodotto, come effetto indotto, la nuova legislazione sulla scuola e l'università
La diffusione giovanile del movimento ha prodotto cambiamenti radicali nel costume, dalla musica al cinema all'abbigliamento, nei rapporti sociali e interpersonali, in quelli tra padri e figli. Per non parlare del linguaggio, dei diritti del bambino e del giovane. Infine 
ci fu la grande attenzione per gli avvenimenti internazionali, l'apertura cosmopolita, la sensazione dell'esistenza di un pianeta giovanile con interessi sovranazionali comuni, la contemporanea esplosione di rivoluzioni e rivolte in tutto il mondo, hanno creato un clima di attesa e di speranza che ha di colpo svecchiato l'intero Paese.
E' stato, insomma, un cambiamento decisivo nella mentalità collettiva dell’Italia e non solo che ha assunto la forma e la sostanza di una vera rivoluzione culturale. 
Oggi molti giovani, potenziali simpatizzanti del Movimento, che potrebbero rappresentarne un momento di continuità, hanno solo una conoscenza vaga dei suoi ideali, dei suoi obiettivi e dei fatti svoltisi. Il risultato paradossale è che mentre gli amici non riescono a valutare l'entità e la portata di quegli anni, i nemici ne testimoniano il carattere "formidabile" onorandone la memoria con una lunga serie di accuse, alcune fondate ma, per la maggior parte, calunniose, come se il Sessantotto fosse stato il padre di tutti i mali della società occidentale. 
Certo come in tutte le vicende umane, alcuni suoi protagonisti, tra i più noti, si sono rapidamente riciclati nei nuovi modelli di comportamento rinnegando in modo spudorato sé stessi e gli ideali giovanili in cui hanno creduto e sono diventati direttori di ‘giornaloni’ o alti funzionari di istituti bancari o burocratici. Si tratta di un gruppo ristretto ma molto appariscente e rumoroso, perché il sistema al quale si sono venduti li mette in prima pagina, bene in vista per tentare di dimostrare la sterilità della coerenza, l'utilità del cinismo camaleontico, la sostanziale debolezza dei valori che animarono il Sessantotto
Il motivo dell'accanimento contro un'epoca che sembra ormai definitivamente tramontata (sepolta dalla disgregazione dell'URSS, dalla strage di Piazza Tien An Men, annientata nella prospettiva di un nuovo ordine mondiale, nella crisi delle ideologie, sotto il crollo del muro di Berlino) si può riconoscere facilmente non solo nella forza e nella durata (1968-1978) del movimento, ma nel fatto che sono proprio quei valori a preoccupare i conservatori, quegli ideali che sono, per natura, contrapposti all'ideologia del Capitale. 
Il Movimento aveva un carattere internazionale, internazionalista, policulturale e interclassista, possedeva una varietà di componenti che finirono per caratterizzarsi in un cocktail variopinto, innestandosi sul filone della protesta operaia e, quindi, sulla tradizione del socialismo e del comunismo internazionale. Ma con una fantasia e una libertà di espressione fino allora sconosciuti. E non poteva essere diversamente perché, furono gli anni Sessanta, infatti, a preparare il Sessantotto.
Furono anni di profondi cambiamenti. Il più importante fu il boom economico, figlio dei bassi salari degli operai-migranti dal sud al nord e dalla campagna alla città. E poi dell'espansione edilizia e della diffusione del pagamento ‘a rate’ che consentì alla classe operaia l’acquisto sterminato di merci, case, automobili e elettrodomestici.
Il Pil cresce e per la prima volta nel governo entra il Partito socialista, dopo la rottura dell'alleanza con il Pci. La conseguenza di questa ventata di benessere fu la diffusione della scolarizzazione che, nel giro di quasi dieci anni, alla fine del boom, determinò il parcheggio scolastico di forza lavoro disoccupata. Le strutture della scuola pubblica ideata da Gentile e dell'Università scricchiolarono sotto il peso di una traboccante nuova generazione in cerca di istruzione e cultura, ma la risposta fu ancora autoritarismo e dogmatismo. 
Una continua spinta libertaria, gioiosamente anarchica, travolse la società: dagli studi di Piaget sulla psicologia infantile si passò alle geniali denunce del prete di Barbiana, don Milani; Mary Quant inventò la minigonna; i giovani scoprirono la libertà sessuale, si fecero crescere i capelli, impazzirono per il rock, cominciarono ad amare la trasgressione. Ai Beatles venne dato l'ostracismo televisivo mentre in Italia e in tutto il mondo migliaia di giovani formarono bands e gruppi musicali, inventarono un loro linguaggio rinunciando a imitare quello degli adulti. Nella rivoluzione giovanile e studentesca confluirono in modo importante fermenti di rivolta musicale, che culminarono nel raduno di Woodstock.
Un vento libertario ispirò anche il movimento dei Provos olandesi, che diffusero l'uso della bicicletta, rigorosamente bianca, e ideali sociali non eversivi da un punto di vista politico, ma rivoluzionari sul piano del costume. Essi proposero valori comunitari, un atteggiamento non egoistico ma solidaristico, la libertà sessuale, la libertà di scelta individuale, l'emancipazione dall'etica famigliare in favore della solidarietà di gruppo giovanile. In Italia si diffuse l'Onda Verde, un movimento giovanil-musicale vagamente libertario, crebbe l'interesse per la situazione internazionale, mentre tutte le contraddizioni di un paese in crescita economica e sociale stavano per esplodere nel contatto con istituzioni, ideologie, mentalità rimaste, malgrado l'apparente evoluzione del dopoguerra, quelle provinciali e arretrate del periodo fascista e prefascista. 
Mentre la classe operaia si apprestava a chiedere legittimamente la propria fetta del boom economico (l'autunno rosso del '69), il pianeta giovani si guardava intorno alla ricerca di miti e modelli da cui trarre ispirazione, rifiutando progressivamente l'intera visione del mondo dei padri e degli adulti in genere e innescando un conflitto generazionale liberatorio e benefico che portò una ventata di verità su rapporti e legami incrostati di ipocrisia e vuota retorica. Paternalismo e autoritarismo divennero il nemico da rigettare ma il rifiuto si trasformò presto in una feroce critica della cultura tradizionale, della cultura borghese. La gioventù di tutto il mondo occidentale divenne ‘realista’ chiedendo l’impossibile, uno slogan che dalla rive gauche di Parigi si diffuse ovunque.
I richiami a Karl Marx, per la sua capacità di evidenziare meriti e demeriti, astuzie e ipocrisie della borghesia, e a Sigmund Freud, il disvelatore dell'oscuro oggetto del desiderio, l'amore per  Herbert Marcuse, costituirono i punti di riferimento del movimento del Sessantotto. 
La ricerca di miti funzionali alle problematiche del momento portò con sé l'interesse per le rivoluzioni, cinese e cubana in particolare, verso personaggi come Che’ GuevaraMao tze Dong, verso tutti i movimenti di liberazione dal colonialismo che in quegli anni procedevano di successo in successo. In primis il Vietnam che dopo aver sconfitto la Francia si prendeva la libertà di buttare a mare l'esercito degli Stati Uniti, di passare di vittoria in vittoria, di creare all'interno degli States un movimento di opposizione che saldava in parte gli interessi dei giovani bianchi a quelli dei neri. Un movimento che culminò nella rivolta nei campus e nel rifiuto a partire per il fronte vietnamitaMiti come Cassius Clay, poi Mohammed Ali’ sfidarono la prigione e rinunciarono alla gloria sportiva per non partire.  
L'interesse per le rivoluzioni contemporanee si estese rapidamente alle rivoluzioni storiche, dei Soviet e francese innanzitutto, fino a comprendere la nostra rivoluzione, quella che ci ha liberato, dai tedeschi e dai fascisti. Anche la Resistenza divenne un mito.
"Il Monte Rosa è sceso a Milano" di Cino Moscatelli e "Senza tregua, la guerra dei Gap" di Giovanni Pesce furono libri che contribuirono ad alimentarlo. 
Si stabilì un curioso avvicinamento tra i giovani ribelli che rifiutavano la cultura dei padri e i vecchi partigiani, protagonisti ancora viventi dell'unico evento storico davvero di popolo del nostro paese.
Una riscoperta quella del mito della Resistenza e della rivoluzione mancata che portò molti giovani ragazze e ragazzi alla scelta finale della lotta per la conquista armata del Comunismo e alla nascita di numerose formazioni combattenti tra cui Brigate rosse, Prima linea, Partito Comunista Combattente.
Questa complessa trama si arricchì dei motivi del movimento femminista, dalle novità introdotte nella ricerca di nuovi valori da Jack Kerouac e dalla rivoluzione dei fiori, dalla liberazione sessuale come momento rivoluzionario; liberazione che portò sopratutto le ragazze alla consapevolezza di se stesse, all’essere ‘io sono mia’ che cambiò per sempre il divenire delle nuove generazioni femminili.  
Tutto ciò accadde mentre le università e le scuole, organizzate per formare l'élite dirigente di prima della guerra, scoppiavano letteralmente di una massa umana indocile e acculturata, che aveva come prospettiva quella di un lungo parcheggio scolastico utile a indorare la pillola della disoccupazione.
Il boom economicobasato su bassi salari, e grandi consumi interni, infatti, si esaurì proprio mentre la classe dei lavoratori avrebbe voluto incassare qualche miglioramento delle sue condizioni di vita, dividendosi almeno una fetta degli enormi profitti padronali, (1957-1967).
Il nuovo Contratto di lavoro e lo Statuto dei lavoratori furono il risultato di questa dura battaglia che vide gli studenti scendere in campo a fianco del proletariato. L'esplosione del Sessantotto ebbe questo carattere vario e composito, fatto di fantasia e ideologia, di energia giovanile e di illusioni, di impegno e di musica, di banalità e grandi temi, di verbosità e di fatti clamorosi. Fu una lunga (1968-1978) rivoluzione culturale che ha segnato nel mondo, e in particolare in Italia, una stagione di riforme istituzionali, di conquiste salariali e di qualità del lavoro, di rivalutazione di importanti componenti sociali (le donne, i bambini, i giovani, gli anziani), di profonde mutazioni nella mentalità collettiva e nei rapporti interpersonali.
Si trattò di cambiamenti che hanno modificato profondamente il comune sentire e senza i quali i referendum sul divorzio e sull'aborto non sarebbero passati. 
Fu, anche, una stagione di violenza. Violenza istituzionale, prima di tutto, violenza antioperaia e antisociale, come le bombe alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano, prima di una serie di numerose stragi che, a causa del coinvolgimento dei servizi segreti, sono state definite "stragi di stato". Violenza repressiva delle lotte dei lavoratori, degli studenti, delle donne, cariche spietate dei cortei, morti e feriti sotto le camionette, come capitò a Giovanni Ardizzone. Naturalmente vi furono anche dure risposte di piazza. E successivamente violenza terroristica
Ma con una distinzione fondamentale. 
Nel Sessantotto il Movimento ebbe molte anime, non tutte in sintonia. Una di queste, decisamente minoritaria, fu quella del terrorismo. Curcio, già nel 1968-69 progettava di rapire Aldo Moro e di organizzare le Brigate Rosse. Non ci fu una escalation dalla violenza di massa al terrorismo: chi aveva in mente di percorrere questa strada, lo aveva chiaro fin dall'inizio. E i due percorsi risultano costantemente separati, salvo eccezioni poco più che casuali. In particolare non risulta nemmeno un caso di passaggio al terrorismo dal Movimento studentesco. La violenza antifascista nacque come autodifesa, come estrema salvaguardia contro forze istituzionali e politiche agguerrite e minacciose. Organizzarsi per difendersi fu una necessità, di fronte all'aggressività di carabinieri e polizia, da una parte, e gruppi fascisti armati di pistole e coltelli, dall'altra.
Non è un caso se il prezzo più elevato per la violenza dello scontro sociale lo ha pagato il movimento della Nuova sinistra, lo hanno pagato Saverio Saltarelli, Roberto Franceschi, Claudio Varalli, Giannino Zibecchi,  Alberto Brasili e Gaetano Amoroso...tutti i compagni feriti o uccisi negli scontri con le forze dell'ordine e con i fascisti. Solo questi ultimi, qualche volta hanno pagato, come nel caso degli assassini di Brasili.
Ma l'assassino di Varalli, il fascista Antonio Braggion, pur condannato per eccesso colposo di legittima difesa non ha mai scontato la sua pena. Sentenza curiosa visto che Varalli fu colpito da una pallottola alla nuca. 
L'organizzarsi del Movimento per cercare di non farsi ammazzare finì per essere indispensabile e fu legittima difesa. Con questo non voglio dire che è giusto assolvere tutto. Vi furono errori ed eccessi che, immancabilmente, sono diventati il pretesto per connotare negativamente il Sessantotto e darne un'immagine riduttiva e falsa. Ma la violenza autodifensiva, ben diversa dal fenomeno del terrorismo, è solo un aspetto di quel periodo che non può definirlo né connotarlo. 
Chi, in quegli anni si è impegnato nella politica attiva, attraverso le sue varie forme, ha avuto la fortuna di vivere un momento storico di rara intensità, ha partecipato a una rivoluzione culturale che, è vero, non ha toccato i centri del potere reale, ma ha influito profondamente sulla società e sul costume di questo paese, e lo ha migliorato.

Ha difeso la democrazia, riconosciuta come un valore, ha contribuito in modo decisivo a creare la consapevolezza di una comunità culturale e di interessi tra tutti i lavoratori, portando un clima di unità tra il mondo del lavoro in fabbrica, i ceti subordinati e le battaglie degli studenti. La rivoluzione studentesca e operaia ha sostenuto con forza l'accidentato cammino dell'emancipazione femminile, guadagnandosi qualche merito anche nelle tante polemiche costruttive e feconde con il movimento femminista e ha diffuso un sentimento di repulsione contro l'imperialismo, il razzismo, il fascismo. 

E lo stesso è accaduto, probabilmente, su qualsiasi tema o battaglia di avanguardia. Senza dimenticare di essere giovani, anzi, persone. Per la maggior parte dei militanti il coinvolgimento ideologico non ha minacciato il piacere di vivere e impegnarsi per una o molte cause: il teatro, i concerti, il ballo, gli scherzi si sono integrati con la serietà di un impegno forte per il sogno dell'uguaglianza tra gli uomini, di rapporti più sereni, contrari alla distruttiva frenesia del sistema capitalistico che addirittura ha rubato, mercificandoli, tanti simboli, e costumi della gioventù ribelle e movimentista.
I risultati delle rivoluzioni culturali non sono immediati, le trasformazioni sociali avvengono con disarmante lentezza e con processi tutt'altro che lineari e tuttavia l'aspirazione a vivere in un mondo pacificato e sereno, il bisogno di superare la terribile disparità nella distribuzione delle ricchezze, la prospettiva di una soluzione globale per i problemi del mondo, si vanno presentando sempre più chiaramente come vere e proprie necessità, si manifestano come esigenze sempre più attuali e vive, se non come l'unica strada da percorrere per salvarci. 

Non ci sarà più un altro Sessantotto. Troppo complessa la trama casuale degli elementi che lo hanno reso possibile. Ma le idee forza e le esigenze reali che lo hanno sostenuto sono più che mai operanti, anche se si manifestano in modo diverso. In fondo, la prima testimonianza della vitalità di questi ideali è confermata dall'accanimento con cui i conservatori li dichiarano "estinti".
A nessuno verrebbe in mente di continuare a proclamare la fine di un'idea davvero spenta: le danze intorno al cadavere del nemico durano un giorno, non trent'anni. Se c'è chi strepita è perché sa bene che quelle aspirazioni, quei bisogni sono ancora vivi dentro ognuno di noi e, soprattutto, esistono là, fuori, nel mondo che si rinnova.

per approfondire:
AA.VV:
"Noi e il Sessantotto"
antologia a cura di Tiziana Viganò
Macchione editore
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