venerdì 1 gennaio 2016

L’albero di stanze”: intervista di Tiziana Viganò a Giuseppe Lupo


La fantasia e la lingua del cantastorie: intervista di Tiziana Viganò a Giuseppe Lupo, autore di “L’albero di stanze”

«A ogni passaggio di cometa un po’ di polvere sarebbe scesa sulla famiglia Bensalem come lievito nel pane: un figlio e una stanza, un altro figlio e un’altra stanza, finché i tetti non fossero arrivati a confondersi con le nuvole, a diventare trasparenti com’è nella fortuna degli anni o degli uomini che vanno e vengono nel mondo, nascono e spariscono senza lasciare traccia».


“L’albero di stanze”, ultimo successo di Giuseppe Lupo, pubblicato da Marsilio nell’ottobre 2015, è la sua casa letteraria dove si sviluppano, attraverso la narrazione nel suo stile originalissimo, geografie oniriche e realismo magico, ma con fondamenta e struttura portante intrise della cultura meridionale, lucana.

T- Una famiglia particolare i Bensalem: il protagonista apprende le vicende centenarie di tutti i componenti della famiglia, dal lontanissimo capostipite, forse il re magio Balthasar, al patriarca Redentore, fino a suo padre, cinque generazioni di eroi contadini che hanno la forza di vivere nella povertà, ma con l’ostinazione di non arrendersi mai e ampliare il proprio orizzonte esplorando il mondo.
G-  Il penultimo della stirpe, Forestino, padre di Babele, è diverso da tutti gli altri della famiglia: è l’intellettuale, il topo di biblioteca, lo scrivano giracarte, il «sugagnostro...uno che sente la voce dei libri», come lo definiscono nella loro strana lingua i Bensalem, un misto di dialetto autoctono e di lingue straniere, di «ndataf, flap flap, aiut marò e simili sgangherie». E così sarà Babele, medico sordo che però sa ascoltare i malanni del corpo e dello spirito solo appoggiando l’orecchio sui pazienti «Sono un ascoltatore di silenzi, non un medico». La moglie, anch’essa medico, francese, assolutamente votata alla razionalità, dice «Tu es fou. Crazy, fou, toc toc».

T- Quanto c’è di te nel “sugagnostro”?
G- Ci sono molti ricordi dell’infanzia, il libro è anche autobiografico, anche se l’invenzione è la sua base. L’ho pensato per quarant’anni, alla ricerca del modo ideale con cui scrivere la storia, una lingua dove c’è non solo un mondo, quello lucano, ma
il mondo, con la confusione di idiomi sempre in continua evoluzione. Attorno alla casa magica il paesaggio è quello di una Lucania d’altri tempi, che rimane ancora oggi nella forma urbanistica dei paesi bianchi arroccati sulle montagne, costruiti fuori e dentro le grotte, arrampicati verso il cielo, proprio come la casa del mio romanzo.
Ora che il libro è finito mi sento un po’ triste, orfano di questa ida che mi ha accompagnato per così lungo tempo, ma il libro ha successo e il pubblico mi sta dando molta gioia e soddisfazione.

T- E la casa?
G- La casa è costruita «con sassi e grano» e risuona di voci: i muri parlano, recitano preghiere, suonano e cantano a un sordo, Babele Bensalem, e narrano all’ultimo discendente un passato che altrimenti andrebbe perduto per sempre. Io volo di fantasia, la lascio viaggiare nel vento e sulle nuvole, inseguendo le comete....mi piace lasciare la realtà e sognare utopie. Risalendo le stanze costruite una sull’altra, una per ogni figlio, come un pioppo o un albero genealogico o la Torre di Babele, il protagonista
conosce il passato e nella notte di Capodanno del 2000...beh non voglio anticipare la sorpresa....

T- Leggendo le pagine di tutti tuoi libri si avverte una grande musicalità: suoni, voci, ritmi e rimbombi della casa svuotata dei Bensalem diventano addirittura protagonisti ne “L’albero di stanze”. Come crei questo tuo linguaggio  e questo ritmo particolare?
G- Quando immagino e scrivo le mie storie seguo la mia voce interiore, parlo a me stesso, le mie orecchie risuonano in quel modo, con quei vocaboli, con quel ritmo e in quella sequenza. Non mi accorgo neppure di avere una lingua particolare, mi viene spontanea, fa parte di me. Nel corso del libro ho cambiato il ritmo: da quello lento del patriarca, come doveva essere in tempi lontani, a quello più accelerato, liquido, che contraddistingue l’avvicinarsi la fine del millennio, un momento catartico nella vicenda.

T- Dicevi che il tuo linguaggio viene dall’inconscio, ma si sente anche una grande raffinatezza nella scelta dei vocaboli. Si sente l’invenzione di uno scrittore che non lascia nessuna parola al caso, con un lavoro di cesello dove i suoni e l’onomatopeia hanno un’importanza fondamentale.
G- Una volta scritto il testo lo rileggo e lo rielaboro tantissime volte: non voglio una lingua erudita e ricercata, ma sicuramente il bagaglio culturale conta, ho letto così tanto che trasmetto sicuramente nei miei libri il vocabolario enorme che ho appreso nel tempo.

T- L’Io narrante è un sordo che storpia le parole, la lingua dei Bensalem è particolare, misto di dialetto e di altre lingue.
G- Babele è un personaggio confuso e disordinato, per questo l’ho chiamato così, per la sua lingua “babelica”, inconsueta. Sicuramente molte parole derivano dal dialetto lucano, altre sono neologismi, l’invenzione è la mia regola!

T- Il tuo mondo fantastico è molto ricco, il legame con la realtà nei tuoi libri è secondario e funzionale: da dove proviene questo tuo modo di raccontare che ti avvicina alla fiaba, alla favola e al mito?
G- Nella mia famiglia c’è sempre stata la tradizione di raccontare storie: in un’epoca in cui la televisione aveva scarsa importanza il narrare riempiva i silenzi e ci permetteva di volare con la fantasia. Durante la mia infanzia in Lucania la tradizione orale del cantastorie era importante per la trasmissione di contenuti che passavano di generazione in generazione, come i racconti epici da Omero in poi, attraverso i poemi cavallereschi per raggiungere la letteratura moderna, Gabriel García Marquéz in prima fila. Penso che questa sia anche la fonte della musicalità che hai notato.

T- E la copertina?
G- Curiosità  sulla copertina del romanzo: è un acquerello che ho  comprato da un barbone incontrato per caso a Budapest, una coincidenza che mi ha colpito, perché ho visto la casa dei Bensalem, “L’albero di stanze” così simile a come l’avevo immaginata.


consiglio
Un poema epico in prosa, dove, le fantasie sono tradotte in rappresentazioni irreali, in metafore acrobatiche, in un caleidoscopio di colore e musica: tempo e luogo sono evanescenti, immagini poetiche dipingono nella prosa una favola antica che trascina il lettore verso altri mondi, lontani da una realtà che troppo spesso appesantisce e toglie la serenità. Lo scrittore stesso col suo sorriso, col suo gesticolare senza posa rivela un mondo interiore spontaneo e ricco di emozioni positive che ci regala leggerezza, quiete e voglia di sognare attraverso la lettura dei suoi straordinari libri.
Perfino chi non è fatto per volare di fantasia avrà la possibilità di aprirsi a nuove esperienze, se riuscirà a lasciarsi andare alla magia di questa scrittura speciale.

Docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università Cattolica di Milano e Brescia, autore di romanzi e saggi, Giuseppe Lupo ha pubblicato presso Marsilio: L'americano di Celenne (2000, Premio Giuseppe Berto 2001, Premio Mondello opera prima, 2001); Ballo ad Agropinto (2004); La carovana Zanardelli (2008, Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical 2008, Premio Carlo Levi 2008); L'ultima sposa di Palmira (2011, Premio Selezione Campiello 2011, Premio Vittorini 2011); Viaggiatori di nuvole (2013, Premio Giuseppe Dessì); Atlante immaginario (2014)



  La fantasia e la lingua del cantastorie: intervista di Tiziana Viganò

“L’albero di stanze”, pubblicato da Marsilio nell’ ottobre 2015, è la casa letteraria di Giuseppe Lupo che sviluppa, attraverso la narrazione nel suo stile originalissimo, geografie oniriche e realismo magico, ma con fondamenta e struttura portante intrise della cultura meridionale, lucana.
«A ogni passaggio di cometa un po’ di polvere sarebbe scesa sulla famiglia Bensalem come lievito nel pane: un figlio e una stanza, un altro figlio e un’altra stanza, finché i tetti non fossero arrivati a confondersi con le nuvole, a diventare trasparenti com’è nella fortuna degli anni o degli uomini che vanno e vengono nel mondo, nascono e spariscono senza lasciare traccia».

T- Una famiglia particolare i Bensalem: il protagonista apprende le vicende centenarie di tutti i componenti della famiglia, dal lontanissimo capostipite, forse il re magio Balthasar, al patriarca Redentore, fino a suo padre, cinque generazioni di eroi contadini che hanno la forza di vivere nella povertà, ma con l’ostinazione di non arrendersi mai e ampliare il proprio orizzonte esplorando il mondo.
G-  Il penultimo della stirpe, Forestino, padre di Babele, è diverso da tutti gli altri della famiglia: è l’intellettuale, il topo di biblioteca, lo scrivano giracarte, il «sugagnostro...uno che sente la voce dei libri», come lo definiscono nella loro strana lingua i Bensalem, un misto di dialetto autoctono e di lingue straniere, di «ndataf, flap flap, aiut marò e simili sgangherie». E così sarà Babele, medico sordo che però sa ascoltare i malanni del corpo e dello spirito solo appoggiando l’orecchio sui pazienti «Sono un ascoltatore di silenzi, non un medico». La moglie, anch’essa medico, francese, assolutamente votata alla razionalità, dice «Tu es fou. Crazy, fou, toc toc».

T- Quanto c’è di te nel “sugagnostro”?
G- Ci sono molti ricordi dell’infanzia, il libro è anche autobiografico, anche se l’invenzione è la sua base. L’ho pensato per quarant’anni, alla ricerca del modo ideale con cui scrivere la storia, una lingua dove c’è non solo un mondo, quello lucano, ma il mondo, con la confusione di idiomi sempre in continua evoluzione. Attorno alla casa magica il paesaggio è quello di una Lucania d’altri tempi, che rimane ancora oggi nella forma urbanistica dei paesi bianchi arroccati sulle montagne, costruiti fuori e dentro le grotte, arrampicati verso il cielo, proprio come la casa del mio romanzo.
Ora che il libro è finito mi sento un po’ triste, orfano di questa ida che mi ha accompagnato per così lungo tempo, ma il libro ha successo e il pubblico mi sta dando molta gioia e soddisfazione.

T- E la casa?
G- La casa è costruita «con sassi e grano» e risuona di voci: i muri parlano, recitano preghiere, suonano e cantano a un sordo, Babele Bensalem, e narrano all’ultimo discendente un passato che altrimenti andrebbe perduto per sempre. Io volo di fantasia, la lascio viaggiare nel vento e sulle nuvole, inseguendo le comete....mi piace lasciare la realtà e sognare utopie. Risalendo le stanze costruite una sull’altra, una per ogni figlio, come un pioppo o un albero genealogico o la Torre di Babele, il protagonista conosce il passato e nella notte di Capodanno del 2000...beh non voglio anticipare la sorpresa....

T- Leggendo le pagine di tutti tuoi libri si avverte una grande musicalità: suoni, voci, ritmi e rimbombi della casa svuotata dei Bensalem diventano addirittura protagonisti ne “L’albero di stanze”. Come crei questo tuo linguaggio  e questo ritmo particolare?
G- Quando immagino e scrivo le mie storie seguo la mia voce interiore, parlo a me stesso, le mie orecchie risuonano in quel modo, con quei vocaboli, con quel ritmo e in quella sequenza. Non mi accorgo neppure di avere una lingua particolare, mi viene spontanea, fa parte di me. Nel corso del libro ho cambiato il ritmo: da quello lento del patriarca, come doveva essere in tempi lontani, a quello più accelerato, liquido, che contraddistingue l’avvicinarsi la fine del millennio, un momento catartico nella vicenda.

T- Dicevi che il tuo linguaggio viene dall’inconscio, ma si sente anche una grande raffinatezza nella scelta dei vocaboli. Si sente l’invenzione di uno scrittore che non lascia nessuna parola al caso, con un lavoro di cesello dove i suoni e l’onomatopeia hanno un’importanza fondamentale.
G- Una volta scritto il testo lo rileggo e lo rielaboro tantissime volte: non voglio una lingua erudita e ricercata, ma sicuramente il bagaglio culturale conta, ho letto così tanto che trasmetto sicuramente nei miei libri il vocabolario enorme che ho appreso nel tempo.

T- L’Io narrante è un sordo che storpia le parole, la lingua dei Bensalem è particolare, misto di dialetto e di altre lingue.
G- Babele è un personaggio confuso e disordinato, per questo l’ho chiamato così, per la sua lingua “babelica”, inconsueta. Sicuramente molte parole derivano dal dialetto lucano, altre sono neologismi, l’invenzione è la mia regola!

T- Il tuo mondo fantastico è molto ricco, il legame con la realtà nei tuoi libri è secondario e funzionale: da dove proviene questo tuo modo di raccontare che ti avvicina alla fiaba, alla favola e al mito?
G- Nella mia famiglia c’è sempre stata la tradizione di raccontare storie: in un’epoca in cui la televisione aveva scarsa importanza il narrare riempiva i silenzi e ci permetteva di volare con la fantasia. Durante la mia infanzia in Lucania la tradizione orale del cantastorie era importante per la trasmissione di contenuti che passavano di generazione in generazione, come i racconti epici da Omero in poi, attraverso i poemi cavallereschi per raggiungere la letteratura moderna, Gabriel García Marquéz in prima fila. Penso che questa sia anche la fonte della musicalità che hai notato.

T- E la copertina?
G- Curiosità  sulla copertina del romanzo: è un acquerello che Giuseppe Lupo ha comprato da un barbone incontrato per caso a Budapest, una coincidenza che l’ha colpito, perché ha visto la casa dei Bensalem, “L’albero di stanze” così simile a come l’aveva immaginata.


consiglio
Un poema epico in prosa, dove, le fantasie sono tradotte in rappresentazioni irreali, in metafore acrobatiche, in un caleidoscopio di colore e musica: tempo e luogo sono evanescenti, immagini poetiche dipingono nella prosa una favola antica che trascina il lettore verso altri mondi, lontani da una realtà che troppo spesso appesantisce e toglie la serenità. Lo scrittore stesso col suo sorriso, col suo gesticolare senza posa rivela un mondo interiore spontaneo e ricco di emozioni positive che ci regala leggerezza, quiete e voglia di sognare attraverso la lettura dei suoi straordinari libri.
Perfino chi non è fatto per volare di fantasia avrà la possibilità di aprirsi a nuove esperienze, se riuscirà a lasciarsi andare alla magia di questa scrittura speciale.

Docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università Cattolica di Milano e Brescia, autore di romanzi e saggi, Giuseppe Lupo ha pubblicato presso Marsilio: L'americano di Celenne (2000, Premio Giuseppe Berto 2001, Premio Mondello opera prima, 2001); Ballo ad Agropinto (2004); La carovana Zanardelli (2008, Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical 2008, Premio Carlo Levi 2008); L'ultima sposa di Palmira (2011, Premio Selezione Campiello 2011, Premio Vittorini 2011); Viaggiatori di nuvole (2013, Premio Giuseppe Dessì); Atlante immaginario (2014)





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