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gennaio 2016 - Seconda giornata tra scrittori a Rescaldina (Mi) IL VIZIO DI
SCRIVERE –Sull’argomento "iL VILLAGGIO GLOBALE" Marina Fichera ha scritto un racconto pieno di colori e profumi esotici, nel segno della pace
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facebook: Il vizio di scrivere (prossima giornata in marzo, seguiteci!)
A
nord di Milano, a Sesto San Giovanni, esiste un condominio in via Marx chiamato
“Il Villaggio”. In realtà più che un condominio “Il villaggio” è una kasbah, un
crogiolo di persone, storie, odori e lingue, una sorta di Babilonia in
miniatura trasferita nell’hinterland milanese.
In
quella vecchia casa popolare negli anni ’60 arrivarono gli immigrati dal Sud
Italia, terroni disperati che andavano ad affollare le linee di produzione
della Falck e della Marelli. Occhi scuri e sguardi smarriti, affrontavano
lunghi viaggi portandosi appresso solo poche povere cose, nella speranza di un
futuro migliore. Poi quel futuro arrivò e i terroni divennero quasi nordici, iniziarono
a mischiarsi con la popolazione locale, a mangiare il risotto, a comprarsi la Lambretta,
a mandare i figli a scuola fino al diploma. Si stava così bene a Sesto San
Giovanni, tutti con un lavoro, una casa, qualche risparmio da parte e l’auto
con cui tornare periodicamente al paese per vantarsi di aver fatto i soldi. E
anche se la casa in realtà era un fatiscente condominio che a tratti sembrava
una dependance dei quartieri Spagnoli di Napoli, l’aria era spesso irrespirabile
per lo smog e la nebbia, e il lavoro in fabbrica massacrante, nessuno una volta
al paese avrebbe mai raccontato che forse, in fondo in fondo, venire al Nord
era stata solo un’illusione, e il sole e il mare mancavano come all’innamorato solitario
manca il caldo sguardo dell’amata.
Ma
la storia umana fin dai tempi della Bibbia narra di vacche grasse e di vacche
magre, cicli e ricicli, e le cose iniziarono a cambiare. Dopo esser state
sfruttate fino al midollo le popolazioni di quelli che una volta erano i “paesi
del terzo mondo” iniziarono a reclamare la loro parte di pace, ricchezza e
sicurezza. Insomma iniziarono a volere una vita come la nostra, anzi proprio la
nostra di vita, a casa nostra, persino a Sesto San Giovanni.
All’inizio
quasi nessuno se n’era accorto, uomini e donne dagli occhi scuri e dagli sguardi
smarriti, avevano affrontato lunghi e pericolosi viaggi portandosi appresso
solo poche povere cose, nella speranza di un futuro migliore. Era arrivata la
famiglia Chang dalla dura campagna della Cina meridionale, poi gli Assam dall’Egitto
dimenticato quasi al confine con il Sudan, Amhed fuggito dal Marocco vessato
dei Saharawi, e pian piano il condominio di via Marx era diventato “Il
villaggio”.
I
terroni se n’erano andati sdegnati, “ma scherziamo, noi mischiarci con quelli
li? sono scuri, sporchi e pure lavativi” riflettevano, non ricordando che
appena trenta o quarant’anni prima i lombardi avevano pensato esattamente la
stessa cosa di loro. La memoria umana è a brevissimo termine, forse perchè
spesso dimenticare è l’unico modo per proteggersi dalla sofferenza delle nostre
ancor più brevi esistenze.
All’inizio
del nuovo millennio al Villaggio convivevano ormai qualche decina di
nazionalità, cinesi, albanesi, marocchini, egiziani, alcuni senegalesi e anche
un timido cingalese. Ognuno stava sulle sue, segregato dalle barriere
linguistiche ma soprattutto ancora profondamente legato alle proprie
tradizioni, ai ricordi struggenti dei colori della propria terra, ai sapori dei
cibi che si erano lasciati alle spalle. Con il cuore erano ancora là, nei
luoghi che avevano amato e poi odiato, e da cui erano scappati. Ognuno aveva
una lunga storia da raccontare eppure non avevano nessuno a cui raccontarla.
Questo era il loro più grande rammarico, non poter far conoscere tutta la
bellezza e la crudeltà che avevano lasciato lontano, troppo lontano per poter
dimenticare.
Ma
le cose talvolta prendono direzioni inaspettate e un giorno arrivò una strana
ragazza. Un’italiana, che non era venuta per abitare al Villaggio, ma per
bussare alle porte e distribuire un fogliettino scritto in tante lingue:
“Lezioni gratuite di italiano, tutti i martedì sera alle 20.00 nella sala
condominiale de Il Villaggio.”.
Era
una ragazza davvero strana pensarono in molti, i capelli rasta, una borsa di
stoffa con grossi fiori applicati e larghi pantaloni colorati. E poi uno
sguardo luminoso e quelle mani che volteggiavano per l’aria come colombe mentre
cercava di farsi capire in tutte le lingue, quelle che conosceva e anche quelle
che semplicemente azzardava. Nessuno aveva capito esattamente da dove venisse
ma la curiosità si era comunque insinuata nei corridoi del palazzo.
Alla
prima lezione si presentarono solo in quattro. Aveva prevalso la diffidenza, il
timore, forse la paura di dimenticare la propria lingua sostituendola con
un’altra completamente diversa. Nessuno era davvero pronto a gettarsi
pienamente in quella nuova vita. In fondo chi è mai pronto a cambiare, i dubbi
attraversano continuamente le nostre strade e il futuro ci spaventa sempre un
po’ troppo. Nonostante ciò la lezione fu un successo, l’italiano e i sorrisi
della fascinosa insegnante convinsero i quattro che sarebbero tornati la
settimana successiva e anche che ne avrebbero parlato con gli altri membri
della propria piccola comunità.
Alla
seconda lezione si presentarono in sette, i primi quattro esordirono con un “buonasera
maestra, come stai?” gli altri li guardarono ammirati e iniziarono ad ascoltare
con attenzione.
Dopo
sei settimane gli allievi erano diventati una trentina, quasi tutti uomini
tranne due donne cinesi che vivevano con altri cinque connazionali in due umide
stanze al primo piano della Scala E. Le donne dovevano rimanere a casa con i
figli, avevano raccontato gli allievi. Per essere presenti nell’unico modo loro
permesso, le donne avevano così iniziato a preparare dei piatti del proprio
paese da condividere alla fine della lezione. Ogni martedì sera un miscuglio di
profumi si spandeva nella squallida sala condominiale, spezie e colori, la
lingua di Dante e quella di Confucio, un sorriso, una stretta di mano, occhi
scuri e sguardi che di settimana in settimana erano sempre meno smarriti.
“Ormai
sapete parlare italiano, raccontatemi della vostra terra, per favore”. Molti deglutirono, altri rimasero come
imbambolati, trasportati per un attimo indietro, proprio ora che avevano quasi
pensato di aver iniziato ad andare avanti!
Il
timido cingalese fu il primo a parlare. Strano ma vero, le persone timide sono
quelle che più facilmente si buttano quando c’è l’opportunità di farlo.
Raccontò
dello Sri Lanka, lentamente, in un italiano acerbo e semplice parlò del verde
smeraldo delle piantagioni di thè, quel verde che una volta che lo hai visto ti
resta per sempre inciso nella memoria. Descrisse il povero villaggio e le
brutture della guerra civile, la famiglia che aveva lasciato laggiù, nel mezzo
dell’Oceano indiano ma anche la felicità che provava quando la mattina vedeva
il sole sorgere dal mare. Parlò fino a quando non ebbe esaurito tutte le parole
che conosceva e anche quelle che ancora doveva imparare. Ora che tutti sapevano
cosa aveva lasciato si sentiva leggero, il Villaggio era la sua casa e i suoi
compagni di studi la nuova famiglia.
Tutti
raccontarono di deserti e mari lontani, albe e tramonti, profumi e colori
indelebili ma anche di guerre crudeli e povertà, tanta povertà. Tutti
iniziarono a sentirsi parte di una comunità di fortunati reietti. Decisero insieme
che avrebbero dovuto rendere il Villaggio un bel posto, comprarono colori e pennelli
e iniziarono a trasformare quel triste condominio in un luogo accogliente e
luminoso.
Un
martedì sera come un altro, alla fine della lezione, tra un falafel profumato
di cumino e un piatto di gamberetti in agrodolce, ci fu un annuncio che nessuno
degli allievi, ormai ben oltre la cinquantina, comprese donne e bambini,
avrebbe mai voluto ascoltare.
“Miei
cari allievi, questa sarà l’ultima lezione. Vi ho insegnato tutto quel che
sapevo, ora devo andare altrove.” Non ebbero neanche il tempo di metabolizzare
quella frase, si salutarono con il solito abbraccio, anche i cinesi che
notoriamente non toccano mai nessuno, e il martedì sera tornò a essere una sera
anonima come le altre sei.
Qualche
tempo dopo un giornalista di uno dei piccoli giornali cittadini scrisse un
articolo sullo strano mondo de “Il villaggio”. Parlò del condominio in cui gli
abitanti avevano imparato l’italiano da una misteriosa insegnante, un ragazza
con i capelli rasta di cui nessuno, né in comune né nelle associazioni locali, aveva
mai sentito parlare e di cui, si accorsero dopo, nessuno aveva mai saputo il
nome. Parlò del condominio bello e colorato di via Marx, quello dove ogni
martedì sera gli abitanti si incontravano per mangiare insieme e narrare storie
di vita ma anche leggende delle proprie terre. Si chiese se quella potesse
essere la dimostrazione del fatto che il pianeta era diventato un minuscolo
villaggio globale o se era solo un’eccentrica versione di società multietnica.
Non seppe darsi risposta e tutti al Villaggio ne furono contenti, in fondo a
loro interessava solo poter raccontare le proprie avventure e passare una
serata sentendosi meno soli.
NdR:
a Sesto San Giovanni esiste Via Marx ma
non esiste alcun condominio come nel racconto, che è frutto della mia fantasia.
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