sabato 23 gennaio 2016

"Il Villaggio – favola metropolitana" di Marina Fichera a IL VIZIO DI SCRIVERE

 10 gennaio 2016 - Seconda giornata tra scrittori a Rescaldina (Mi) IL VIZIO DI SCRIVERE –Sull’argomento "iL VILLAGGIO GLOBALE" Marina Fichera ha scritto un racconto pieno  di colori e profumi esotici, nel segno della pace

pagina facebook: Il vizio di scrivere (prossima giornata in marzo, seguiteci!)


A nord di Milano, a Sesto San Giovanni, esiste un condominio in via Marx chiamato “Il Villaggio”. In realtà più che un condominio “Il villaggio” è una kasbah, un crogiolo di persone, storie, odori e lingue, una sorta di Babilonia in miniatura trasferita nell’hinterland milanese.
In quella vecchia casa popolare negli anni ’60 arrivarono gli immigrati dal Sud Italia, terroni disperati che andavano ad affollare le linee di produzione della Falck e della Marelli. Occhi scuri e sguardi smarriti, affrontavano lunghi viaggi portandosi appresso solo poche povere cose, nella speranza di un futuro migliore. Poi quel futuro arrivò e i terroni divennero quasi nordici, iniziarono a mischiarsi con la popolazione locale, a mangiare il risotto, a comprarsi la Lambretta, a mandare i figli a scuola fino al diploma. Si stava così bene a Sesto San Giovanni, tutti con un lavoro, una casa, qualche risparmio da parte e l’auto con cui tornare periodicamente al paese per vantarsi di aver fatto i soldi. E anche se la casa in realtà era un fatiscente condominio che a tratti sembrava una dependance dei quartieri Spagnoli di Napoli, l’aria era spesso irrespirabile per lo smog e la nebbia, e il lavoro in fabbrica massacrante, nessuno una volta al paese avrebbe mai raccontato che forse, in fondo in fondo, venire al Nord era stata solo un’illusione, e il sole e il mare mancavano come all’innamorato solitario manca il caldo sguardo dell’amata.
Ma la storia umana fin dai tempi della Bibbia narra di vacche grasse e di vacche magre, cicli e ricicli, e le cose iniziarono a cambiare. Dopo esser state sfruttate fino al midollo le popolazioni di quelli che una volta erano i “paesi del terzo mondo” iniziarono a reclamare la loro parte di pace, ricchezza e sicurezza. Insomma iniziarono a volere una vita come la nostra, anzi proprio la nostra di vita, a casa nostra, persino a Sesto San Giovanni.

All’inizio quasi nessuno se n’era accorto, uomini e donne dagli occhi scuri e dagli sguardi smarriti, avevano affrontato lunghi e pericolosi viaggi portandosi appresso solo poche povere cose, nella speranza di un futuro migliore. Era arrivata la famiglia Chang dalla dura campagna della Cina meridionale, poi gli Assam dall’Egitto dimenticato quasi al confine con il Sudan, Amhed fuggito dal Marocco vessato dei Saharawi, e pian piano il condominio di via Marx era diventato “Il villaggio”.
I terroni se n’erano andati sdegnati, “ma scherziamo, noi mischiarci con quelli li? sono scuri, sporchi e pure lavativi” riflettevano, non ricordando che appena trenta o quarant’anni prima i lombardi avevano pensato esattamente la stessa cosa di loro. La memoria umana è a brevissimo termine, forse perchè spesso dimenticare è l’unico modo per proteggersi dalla sofferenza delle nostre ancor più brevi esistenze.

All’inizio del nuovo millennio al Villaggio convivevano ormai qualche decina di nazionalità, cinesi, albanesi, marocchini, egiziani, alcuni senegalesi e anche un timido cingalese. Ognuno stava sulle sue, segregato dalle barriere linguistiche ma soprattutto ancora profondamente legato alle proprie tradizioni, ai ricordi struggenti dei colori della propria terra, ai sapori dei cibi che si erano lasciati alle spalle. Con il cuore erano ancora là, nei luoghi che avevano amato e poi odiato, e da cui erano scappati. Ognuno aveva una lunga storia da raccontare eppure non avevano nessuno a cui raccontarla. Questo era il loro più grande rammarico, non poter far conoscere tutta la bellezza e la crudeltà che avevano lasciato lontano, troppo lontano per poter dimenticare.

Ma le cose talvolta prendono direzioni inaspettate e un giorno arrivò una strana ragazza. Un’italiana, che non era venuta per abitare al Villaggio, ma per bussare alle porte e distribuire un fogliettino scritto in tante lingue: “Lezioni gratuite di italiano, tutti i martedì sera alle 20.00 nella sala condominiale de Il Villaggio.”.
Era una ragazza davvero strana pensarono in molti, i capelli rasta, una borsa di stoffa con grossi fiori applicati e larghi pantaloni colorati. E poi uno sguardo luminoso e quelle mani che volteggiavano per l’aria come colombe mentre cercava di farsi capire in tutte le lingue, quelle che conosceva e anche quelle che semplicemente azzardava. Nessuno aveva capito esattamente da dove venisse ma la curiosità si era comunque insinuata nei corridoi del palazzo.
Alla prima lezione si presentarono solo in quattro. Aveva prevalso la diffidenza, il timore, forse la paura di dimenticare la propria lingua sostituendola con un’altra completamente diversa. Nessuno era davvero pronto a gettarsi pienamente in quella nuova vita. In fondo chi è mai pronto a cambiare, i dubbi attraversano continuamente le nostre strade e il futuro ci spaventa sempre un po’ troppo. Nonostante ciò la lezione fu un successo, l’italiano e i sorrisi della fascinosa insegnante convinsero i quattro che sarebbero tornati la settimana successiva e anche che ne avrebbero parlato con gli altri membri della propria piccola comunità.
Alla seconda lezione si presentarono in sette, i primi quattro esordirono con un “buonasera maestra, come stai?” gli altri li guardarono ammirati e iniziarono ad ascoltare con attenzione.
Dopo sei settimane gli allievi erano diventati una trentina, quasi tutti uomini tranne due donne cinesi che vivevano con altri cinque connazionali in due umide stanze al primo piano della Scala E. Le donne dovevano rimanere a casa con i figli, avevano raccontato gli allievi. Per essere presenti nell’unico modo loro permesso, le donne avevano così iniziato a preparare dei piatti del proprio paese da condividere alla fine della lezione. Ogni martedì sera un miscuglio di profumi si spandeva nella squallida sala condominiale, spezie e colori, la lingua di Dante e quella di Confucio, un sorriso, una stretta di mano, occhi scuri e sguardi che di settimana in settimana erano sempre meno smarriti.

“Ormai sapete parlare italiano, raccontatemi della vostra terra, per favore”.  Molti deglutirono, altri rimasero come imbambolati, trasportati per un attimo indietro, proprio ora che avevano quasi pensato di aver iniziato ad andare avanti!
Il timido cingalese fu il primo a parlare. Strano ma vero, le persone timide sono quelle che più facilmente si buttano quando c’è l’opportunità di farlo.
Raccontò dello Sri Lanka, lentamente, in un italiano acerbo e semplice parlò del verde smeraldo delle piantagioni di thè, quel verde che una volta che lo hai visto ti resta per sempre inciso nella memoria. Descrisse il povero villaggio e le brutture della guerra civile, la famiglia che aveva lasciato laggiù, nel mezzo dell’Oceano indiano ma anche la felicità che provava quando la mattina vedeva il sole sorgere dal mare. Parlò fino a quando non ebbe esaurito tutte le parole che conosceva e anche quelle che ancora doveva imparare. Ora che tutti sapevano cosa aveva lasciato si sentiva leggero, il Villaggio era la sua casa e i suoi compagni di studi la nuova famiglia.
Tutti raccontarono di deserti e mari lontani, albe e tramonti, profumi e colori indelebili ma anche di guerre crudeli e povertà, tanta povertà. Tutti iniziarono a sentirsi parte di una comunità di fortunati reietti. Decisero insieme che avrebbero dovuto rendere il Villaggio un bel posto, comprarono colori e pennelli e iniziarono a trasformare quel triste condominio in un luogo accogliente e luminoso.
Un martedì sera come un altro, alla fine della lezione, tra un falafel profumato di cumino e un piatto di gamberetti in agrodolce, ci fu un annuncio che nessuno degli allievi, ormai ben oltre la cinquantina, comprese donne e bambini, avrebbe mai voluto ascoltare.
“Miei cari allievi, questa sarà l’ultima lezione. Vi ho insegnato tutto quel che sapevo, ora devo andare altrove.” Non ebbero neanche il tempo di metabolizzare quella frase, si salutarono con il solito abbraccio, anche i cinesi che notoriamente non toccano mai nessuno, e il martedì sera tornò a essere una sera anonima come le altre sei.

Qualche tempo dopo un giornalista di uno dei piccoli giornali cittadini scrisse un articolo sullo strano mondo de “Il villaggio”. Parlò del condominio in cui gli abitanti avevano imparato l’italiano da una misteriosa insegnante, un ragazza con i capelli rasta di cui nessuno, né in comune né nelle associazioni locali, aveva mai sentito parlare e di cui, si accorsero dopo, nessuno aveva mai saputo il nome. Parlò del condominio bello e colorato di via Marx, quello dove ogni martedì sera gli abitanti si incontravano per mangiare insieme e narrare storie di vita ma anche leggende delle proprie terre. Si chiese se quella potesse essere la dimostrazione del fatto che il pianeta era diventato un minuscolo villaggio globale o se era solo un’eccentrica versione di società multietnica. Non seppe darsi risposta e tutti al Villaggio ne furono contenti, in fondo a loro interessava solo poter raccontare le proprie avventure e passare una serata sentendosi meno soli.



NdR: a Sesto San  Giovanni esiste Via Marx ma non esiste alcun condominio come nel racconto, che è frutto della mia fantasia. 

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