mercoledì 20 gennaio 2016

"La casa sul confine" di Gianni Papa a IL VIZIO DI SCRIVERE


10 gennaio 2016 - Seconda giornata tra scrittori a Rescaldina (Mi) IL VIZIO DI SCRIVERE –Sull’argomento "Confini" Gianni Papa ha scritto un bel racconto pieno di memorie


pagina facebook: Il vizio di scrivere (prossima giornata in marzo, seguiteci!)


Dove abitava mio padre c'era il confine. Più in là era proibito andare. La cosa mi dava fastidio, perché a me piace fare delle lunghe passeggiate. La strada che portava a casa sua era lunga e stretta, con muri altissimi di palazzi a destra e a sinistra. Oltre c'era il bosco, e prima del bosco il confine, il limite invalicabile con sorveglianza armata.
- Giorgio!
- Sì, papà, dimmi. Che c'è?
- Come fai a sapere che ero io?
- Ho visto il tuo numero. Dimmi.
- Mi è arrivato il pacco!
- Che pacco?
- Ho preso la caffettiera a capsule e le capsule compatibili su internet. Te ne avevo parlato.
- Papà, a me piace la moka.
- Ho preso il caffè “Napoli” della Yespresso. Devi provarlo: è buonissimo.
- Ho da fare, mi dispiace. Devo preparare un lavoro per domani.
- Che ci vuole? Il tempo di un caffè. E dai... Ti aspetto!
Stavo per parlare ancora, ma tacqui. Aveva riattaccato.
Papà era un vecchio maresciallo dell'aeronautica e la casa dove abitava era quella in cui ero vissuto da piccolo, ma quando ero piccolo non c'era il confine.
Quando ero piccolo potevo andare per i campi, incontrare le mucche che pascolavano, i cani che mi abbaiavano contro, le vecchie che stendevano i panni fuori casa. Ora no: con tutti i palazzi che avevano costruito, non c'era che una strada, lunga quasi un chilometro, e non c'era che un solo tipo di passeggiata possibile: tornare indietro alla piazza da cui partiva la strada. E poi riprendere la strada per camminare fino alla casa. E poi tornare ancora indietro alla piazza. E così via ad libitum.
Composi il numero di telefono di Francesca. 
- Pronto.
- Ciao.
Francesca, la mia ex moglie. L'avevo sposata perché c'era una sorta di feeling naturale mentale con lei. Mi trovavo bene con quella ragazza, ci capivamo al volo. Facevamo anche l'amore con discreto successo, ma il lato chimico doveva essere carente, perché tutto a un tratto s'era estinto, era diventato un ricordo lontano e traballante.
- Hai da fare oggi?
Sentii che respirava forte nel telefono. Una delle particolarità di Francesca è che basta poco per farla innervosire. In quel momento sentivo il suo respiro e sapevo che era già pronta per urlare e mandarmi al diavolo.
- Che intendi dire????
Pronunciò queste ultime parole a voce già alta, sull'orlo di una crisi di rabbia.
- Papà mi ha chiamato. Mi vuole offrire il caffè.
- E vacci.
- Te la ricordi la casa di mio padre? Te la ricordi?
- Bella... In mezzo agli alberi...
- Quello era prima, quando eravamo sposati, poi hanno messo il confine.
- Resta bella. E il verde c'è sempre. Puoi affacciarti alla finestra e lo vedi. Anzi sul retro c'è anche un balconcino, mi pare.
Per un lungo istante mantenni il silenzio. Poi lei disse:
- Ci sei ancora? Ho un sacco da fare. Che vuoi?
- Senti – feci – non ti ho chiamato per litigare o polemizzare, ma per chiederti un favore. Ti ricordi quando mi si è smagnetizzato il bancomat e non potevo prelevare? A chi ho chiesto un prestito? A te! E tu sei stata subito gentilissima.
- Mi hai fatto un bonifico online immediato per restituirmeli.
- Però avresti potuto fregartene. Invece mi hai dato cento euro. E io ti sono stato riconoscente. Ora devo chiederti un altro favore.
- Che favore?
- Mi accompagni da papà?
Stavolta fu lei a sbattermi in faccia un silenzio denso di respiri rumorosi. Poi disse che andava bene, a voce bassissima.
- Non ho capito.
- Ma mi ascolti?
- Alza la voce. Non ho capito.
- Andiamo a trovare tuo padre – fece.
Ci demmo appuntamento per le tre del pomeriggio, nella piazza prima della strada stretta tra i palazzi. In quella piazza c'era un bar che ci aveva visti spesso seduti ai tavolini, quando eravamo fidanzati, e poi anche dopo, come marito e moglie, a prendere il caffè. Non avevano ancora inventato le macchinette a capsule e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di tenere in casa una caffettiera che non fosse una moka.
Parcheggiammo vicini. Io avevo la mia solita Dacia Sandero ammaccata e pluridecorata sul campo con mille striature creative, lei la sua Honda Jazz rossa e intonsa come appena uscita dalla pancia della mamma delle automobili. Mi vide e non mi sorrise nemmeno. Fece un lungo respiro rumoroso e poi mi intimò di sbrigarmi, perché aveva tante cose da fare e doveva tornare a casa. La verità era che odiava mio padre, non aveva mai sopportato le sue continue battutine e frecciatine, non aveva mai sopportato che fosse uno dei baby pensionati di Craxi, non aveva mai sopportato che fosse vissuto anni e anni come un re sulle spalle del duro lavoro quotidiano di mia madre che infatti, a un certo punto, aveva avuto un ictus e ci era rimasta.
- Certo... una volta il palazzo a sinistra non c'era... Forse era meno inquietante. Hai ragione – disse, mentre ci addentravamo per la stradina stretta tra i muri.
- Per questo non vengo mai a trovarlo.
- Mi manca l'aria – fece lei dopo un po', quando non eravamo nemmeno a metà strada.
Alla fine, negli ultimi metri, camminammo mano nella mano, come quando stavamo insieme. Non c'era nulla di sentimentale né tantomeno di erotico, in quel gesto. Lo facevamo solo per incoraggiarci a vicenda e resistere alla tentazione di tornare indietro.
Quando fummo in fondo alla strada e si aprì il panorama, con la casetta di mio padre, gli alberi, il bosco e le altre case in lontananza, Francesca mi lasciò immediatamente e cominciò a camminare lontanissimo da me. Sentivo il suo respiro rumoroso, forte quasi come quando me lo sparava nell'orecchio attraverso il telefono.
Da dove eravamo, non si vedeva la lunga linea grigia tracciata a terra, il confine, ma solo gli alberi, qualche mucca lontana, le case, e poi ancora alberi, ancora mucche, alberi sempre più fitti e un'ultima casa bianca, in fondo, coperta dai fiori.
Papà ci vide che non eravamo ancora arrivati e gridò dalla finestra.
- Non ci posso credere! C'è anche Francesca!
Quando raggiungemmo la porta, lui era già pronto ad accoglierci, con un sorriso a tutta dentiera. Sembrava più giovane e più magro dell'ultima volta che l'avevo visto. E sembrava più allegro del solito, tanto che Francesca si innervosì. La conoscevo bene, Francesca: i suoi muscoli si irrigidirono, le tempie cominciarono a pulsare, lo sguardo cominciò a vagare per la stanza in cerca di un punto dove posarsi che non fosse la faccia ilare di mio padre, il baby pensionato, il suocero detestabile, lo schiavista consapevole e sadico di mia mamma.
Alla fine, la mia ex moglie decise di guardare la macchinetta del caffè. Era una Piccolo Dolce Gusto. Ne avevo vista una simile al Media World. La davano via per una miseria, segno che le capsule dovevano costare un botto.
- Papà, allora?
- Sedetevi, ragazzi. Che piacere vedervi insieme. Ma vi siete rimessi...
Francesca scosse la testa e urlò.
- Nemmeno per sogno!!!!
Non accettò l'invito a sedersi, mentre io mi avvicinai al tavolo e poggiai le terga su una sedia bianca col cuscino morbido. Francesca, invece, se ne stette in un angolo, vicino alla credenza dell'Ikea, con le braccia conserte e lo sguardo in fiamme.
- Papà, allora? Questo caffè?
Lui sembrò ricordarsene solo in quel momento, impacciato e confuso.
- Eh... Mah... Era per vedersi, no? Non è che prendete il caffè e ve ne andate?... State un po' con me, dai. Qui è un tale mortorio. Una volta andavo dai Piscopo in fondo alla valle, ma ora c'è il confine. Anche per la spesa, devo chiamare qualcuno: me la faccio portare dall'Esselunga e vogliono dieci euro in più, perché non possono passare col furgoncino per l'ultimo pezzo. Quando esco, non vado oltre la piazza. In piazza mi sento già stanco. A volte mi fermo a parlare con il barista, ma il caffè costa sempre più caro. Io mi ricordo che costava cinquecento lire, ora vogliono un euro per il caffè, un euro e venti per il marocchino e un euro e trenta per il cappuccino. Perciò mi sono comprato la macchinetta, tanto sono da solo.
Francesca continuava a restarsene col culo attaccato alla credenza e continuava a guardare la macchinetta, con tale intensità che alla fine mio padre si decise ad aprire il cassetto con le capsule. Poi guardò. Prima guardò me, quindi guardò Francesca. Francesca distolse gli occhi.
- Ho tre tipi di caffè. Napoli, Cremoso e Deca. Se volete, ho anche la mini cioccolata e il chocochino. E mi resta anche qualche capsula di Tè Marrakesh..
- Qual è il più forte? - chiese Francesca, sempre senza guardarlo.
Sembrava un po' meno arrabbiata di prima, però. Si era accorta che, a due passi dalla macchinetta del caffè, c'era una finestra con le tendine scostate. Da quella finestra si vedevano gli alberi oltre il confine. Per un attimo restò indecisa tra la macchinetta e la finestra, poi optò per la finestra.
- Napoli – rispose papà.
- Allora io Napoli – disse la mia ex moglie.
- Io cremoso – feci.
Francesca mi guardò e sorrise. Sapevo cosa pensava, la conoscevo troppo bene. Pensava che non avevo mai scelto la stessa cosa che sceglieva lei. Per spirito di contraddizione.
Papà tolse il contenitore dell'acqua da dietro alla macchinetta, la riempì con una bottiglia di plastica Guizza, poi la mise a posto, infilò la capsula di Napoli e accese. Dopo pochi secondi il caffè cominciò a fluire dentro una tazzina bianca. Alla fine, prese la tazzina e la porse a Francesca, che fu costretta a guardargli le mani.
- Lo zucchero è dietro di te. E anche il cucchiaino. Mettine quanto ne vuoi.
Ripeté la stessa operazione con una capsula di Cremoso in un bicchierino trasparente.
- Tu non bevi caffè? - dissi.
Papà annuì.
- Napoli – fece. Piano piano, compì ancora una volta il rito della preparazione facilitata con capsula compatibile.
Francesca, intanto, si era allontanata dalla credenza e avvicinata alla finestra. Adesso guardava decisamente fuori. Mi avvicinai a lei con il bicchierino in mano. Si scansò, ma non smise di guardare fuori.
- Stai tranquilla – feci – Mica volevo toccarti.
Papà cominciò a parlare di quando era giovane e poteva camminare dove voleva, di quando la strada non c'era perché non c'erano tutti quei palazzi e tutti quei muri, di quando aveva la patente e poteva portare la macchina fin davanti al cancello, di quando gli amici lo venivano a trovare.
- Non si vede nemmeno, il confine. Da qui, non si vede assolutamente – disse Francesca.
Guardai anch'io. Aveva ragione. C'erano alberi verdissimi e altissimi a perdita d'occhio, c'era erba, c'erano cespugli, ma non si vedevano confini.
Che alberi erano? Non l'avevo mai saputo. Sapevo che facevano fresco e che formavano un tappeto di foglie cadute su cui era bellissimo camminare a piedi nudi.
Tra gli alberi, mezza nascosta, si scorgeva la casa dei Piscopo. Qualche altra casa, più lontana, si intravedeva appena o si intuiva. Poi c'era la la casa bianca coperta di fiori in fondo. Nient'altro. Nessun confine. Nessun ostacolo.
- Papà – feci – Hai mai pensato di fare domanda per andare a vivere di là?
Scosse la testa.
- Perché no?
- Non ne sarei capace – disse – Hanno le scuole tedesche. I bambini parlano tedesco. Nei bar fanno il caffè col filtro. I centri commerciali sono pieni di turchi e gira un sacco di gente ubriaca. Non fa per me.
- Ma potresti andare dai Piscopo senza problemi, se lasciassi questa casa e andassi ad abitare di là. Potresti addirittura camminare in mezzo agli alberi.
- E poi – intervenne Francesca – diciamocelo chiaro... Senza la signora, la sua abitazione si sta riducendo a un immondezzaio. Non è facile abituarsi a fare le cose da solo, quando per anni si è avuta la schiava. Si vede. Da quanto tempo non cambia le tende? Si accorto di quanta sporcizia si è accumulata negli angoli e sotto i mobili? Ma poi, parliamoci chiaro, un confine che è una linea segnata a terra che paura può fare? Chi se ne frega???
- C'è il cartello. Sorveglianza armata.
Francesca guardò fuori.
- Dove?
- Attaccato al primo albero dopo il confine.
- È quella macchia gialla? Da qui non si legge, è troppo lontano.
- Sì. È quella.
- Se ci fosse sorveglianza armata, si vedrebbe. Io vedo solo delle mucche. Giorgio, vieni con me? Andiamo a trovare i Piscopo. Me li ricordo, i Piscopo. Avevano una bambina piccola.
- Ormai sarà grande.
Senza porre tempo in mezzo, Francesca si mosse e si diresse alla porta. Non ebbi la forza né la possibilità di controbattere alla sua decisione e sapevo bene che, se non l'avessi seguita, sarebbe andata da sola. La raggiunsi all'angolo della casa. La stava aggirando per andare verso il confine.
- Sei sicura? - sussurrai.
- Se non andiamo, tuo padre rimarrà sempre lì da solo, con la sua macchinetta a capsule, sporcherà sempre di più e ti romperà sempre di più le palle chiedendo di andarlo a trovare. Se invece vede che raggiungiamo la villetta dei Piscopo, prenderà coraggio e ci seguirà. E poi magari comincerà ad andarci spesso. O magari loro andranno a trovare lui.
- Sono sei anni che il confine è chiuso e nessuno si è mai visto, né lui ha mai visto nessuno. Le cose cambiano, in sei anni. Non sappiamo se ci sono ancora i Piscopo, oltre il confine.
Sorrise. Sembrava forte e serena.
- Ci toccherà scoprirlo – disse.
A larghe falcate raggiunse il retro della casa. Ci voltammo e vedemmo mio padre fermo dietro il vetro della finestra. Sorseggiava lentamente il suo Napoli, serissimo.
Francesca mi tese la mano.
- Dai, andiamo insieme.
- No, per favore, mio padre guarda.
- Mia voglio rimettermi con te. È come prima, sulla strada.
- Ma lui pensa male.
- Lascialo pensare.
Mi feci convincere. Le diedi la mano. Lei me la strinse.
Camminammo. La linea grigia era più vicina di quanto pensassimo, solo che era nascosta in mezzo all'erba diventata alta. Ci guardammo e superammo il confine all'unisono, come due soldati nazisti impegnati nel passo dell'oca.
Non successe nulla. Francesca cominciò a sorridere. Poi a ridere.
Ci voltammo entrambi, istintivamente, a guardare la finestra. Papà era lì e beveva ancora caffè. La sua espressione sembrava identica a prima, serissima e indecifrabile.
- Qual è la casa dei Piscopo? - disse Francesca.
Avevamo le mani strette e calde. Sentivo un brivido passare dal mio braccio al suo, e viceversa.
Istintivamente, la presi tra le braccia. La strinsi. Ricordai il suo profumo, il profumo di quando avevamo fatto l'amore per la prima volta. Il profumo indimenticabile, che avevo dimenticato, dell'anima gemella.
Fu un istante. Poi lei si irrigidì. Mi allontanò. Mi guardò gelida.
- Dov'è la casa dei Piscopo? - chiese.
Le indicai la prima villetta, mezza nascosta tra gli alberi.
- Ok – fece – Andiamo?
Non le risposi. Me ne stetti immobile a guardarla. Era bellissima. Bellissima e gelida come quando l'avevo sposata.
- Che ti prende? - disse.
Non seppi risponderle, perché nella testa avevo una risposta confusa. Era qualcosa che riguardava il confine che avevamo oltrepassato anni prima, quando avevamo smesso di volerci bene, quando ci eravamo dimenticati dei nostri odori, quando lei aveva cominciato a dirmi che puzzavo.
Era un confine che non si vedeva, anche quello. Ma lo avevamo passato insieme e non potevamo tornare indietro. Non potevamo superare più nessun confine, insieme, nemmeno nascosto nell'erba.
- Io non vengo – dissi – Torno da papà.
Assunse un'espressione interrogativa, serissima. Serissima come quando mi aveva detto che una sua amica le aveva dato il nome di un avvocato e che avrei dovuto cercarmi un avvocato anche io.
- Poi mi racconti – dissi.
Le voltai le spalle e cominciai a camminare. Cercai nella casa della mia infanzia un punto su cui soffermarmi che mi evitasse di invertire la marcia e guardare indietro. Lo trovai quando i miei piedi avevano ormai calpestato la linea grigia.

Erano gli occhi di mio padre.

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