10 gennaio 2016 - Seconda giornata tra scrittori a Rescaldina (Mi) IL VIZIO DI SCRIVERE –Sull’argomento "Confini" Gianni Papa ha scritto un bel racconto pieno di memorie
pagina facebook: Il vizio di scrivere (prossima giornata in marzo, seguiteci!)
Dove abitava mio padre c'era il confine. Più in là era proibito andare. La cosa mi dava fastidio, perché a me piace fare delle lunghe passeggiate. La strada che portava a casa sua era lunga e stretta, con muri altissimi di palazzi a destra e a sinistra. Oltre c'era il bosco, e prima del bosco il confine, il limite invalicabile con sorveglianza armata.
- Giorgio!
- Sì, papà,
dimmi. Che c'è?
- Come fai a
sapere che ero io?
- Ho visto il
tuo numero. Dimmi.
- Mi è
arrivato il pacco!
- Che pacco?
- Ho preso la
caffettiera a capsule e le capsule compatibili su internet. Te ne avevo
parlato.
- Ho preso il
caffè “Napoli” della Yespresso. Devi provarlo: è buonissimo.
- Ho da fare,
mi dispiace. Devo preparare un lavoro per domani.
- Che ci
vuole? Il tempo di un caffè. E dai... Ti aspetto!
Stavo per
parlare ancora, ma tacqui. Aveva riattaccato.
Papà era un
vecchio maresciallo dell'aeronautica e la casa dove abitava era quella in cui
ero vissuto da piccolo, ma quando ero piccolo non c'era il confine.
Quando ero piccolo potevo andare per i campi, incontrare le mucche che pascolavano, i cani che mi abbaiavano contro, le vecchie che stendevano i panni fuori casa. Ora no: con tutti i palazzi che avevano costruito, non c'era che una strada, lunga quasi un chilometro, e non c'era che un solo tipo di passeggiata possibile: tornare indietro alla piazza da cui partiva la strada. E poi riprendere la strada per camminare fino alla casa. E poi tornare ancora indietro alla piazza. E così via ad libitum.
Quando ero piccolo potevo andare per i campi, incontrare le mucche che pascolavano, i cani che mi abbaiavano contro, le vecchie che stendevano i panni fuori casa. Ora no: con tutti i palazzi che avevano costruito, non c'era che una strada, lunga quasi un chilometro, e non c'era che un solo tipo di passeggiata possibile: tornare indietro alla piazza da cui partiva la strada. E poi riprendere la strada per camminare fino alla casa. E poi tornare ancora indietro alla piazza. E così via ad libitum.
Composi il
numero di telefono di Francesca.
- Pronto.
- Ciao.
Francesca, la
mia ex moglie. L'avevo sposata perché c'era una sorta di feeling naturale
mentale con lei. Mi trovavo bene con quella ragazza, ci capivamo al volo.
Facevamo anche l'amore con discreto successo, ma il lato chimico doveva essere
carente, perché tutto a un tratto s'era estinto, era diventato un ricordo
lontano e traballante.
- Hai da fare
oggi?
Sentii che
respirava forte nel telefono. Una delle particolarità di Francesca è che basta
poco per farla innervosire. In quel momento sentivo il suo respiro e sapevo che
era già pronta per urlare e mandarmi al diavolo.
- Che intendi
dire????
Pronunciò
queste ultime parole a voce già alta, sull'orlo di una crisi di rabbia.
- Papà mi ha
chiamato. Mi vuole offrire il caffè.
- E vacci.
- Te la
ricordi la casa di mio padre? Te la ricordi?
- Bella... In
mezzo agli alberi...
- Quello era
prima, quando eravamo sposati, poi hanno messo il confine.
- Resta bella.
E il verde c'è sempre. Puoi affacciarti alla finestra e lo vedi. Anzi sul retro
c'è anche un balconcino, mi pare.
Per un lungo
istante mantenni il silenzio. Poi lei disse:
- Ci sei
ancora? Ho un sacco da fare. Che vuoi?
- Senti – feci – non ti
ho chiamato per litigare o polemizzare, ma per chiederti un favore. Ti ricordi
quando mi si è
smagnetizzato il bancomat e non potevo prelevare? A chi ho chiesto un prestito?
A te! E tu sei stata subito gentilissima.
- Mi hai fatto
un bonifico online immediato per restituirmeli.
- Però avresti
potuto fregartene. Invece mi hai dato cento euro. E io ti sono stato
riconoscente. Ora devo chiederti un altro favore.
- Che favore?
- Mi accompagni
da papà?
Stavolta fu
lei a sbattermi in faccia un silenzio denso di respiri rumorosi. Poi disse che
andava bene, a voce bassissima.
- Non ho
capito.
- Ma mi
ascolti?
- Alza la
voce. Non ho capito.
- Andiamo a
trovare tuo padre – fece.
Ci demmo
appuntamento per le tre del pomeriggio, nella piazza prima della strada stretta
tra i palazzi. In quella piazza c'era un bar che ci aveva visti spesso seduti
ai tavolini, quando eravamo fidanzati, e poi anche dopo, come marito e moglie,
a prendere il caffè. Non avevano ancora inventato le macchinette a capsule e a
nessuno sarebbe mai venuto in mente di tenere in casa una caffettiera che non
fosse una moka.
Parcheggiammo
vicini. Io avevo la mia solita Dacia Sandero ammaccata e pluridecorata sul
campo con mille striature creative, lei la sua Honda Jazz rossa e intonsa come
appena uscita dalla pancia della mamma delle automobili. Mi vide e non mi
sorrise nemmeno. Fece un lungo respiro rumoroso e poi mi intimò di sbrigarmi,
perché aveva tante cose da fare e doveva tornare a casa. La verità era che
odiava mio padre, non aveva mai sopportato le sue continue battutine e
frecciatine, non aveva mai sopportato che fosse uno dei baby pensionati di
Craxi, non aveva mai sopportato che fosse vissuto anni e anni come un re sulle spalle
del duro lavoro quotidiano di mia madre che infatti, a un certo punto, aveva
avuto un ictus e ci era rimasta.
- Certo... una
volta il palazzo a sinistra non c'era... Forse era meno inquietante. Hai
ragione – disse, mentre ci addentravamo per la stradina stretta tra i muri.
- Per questo
non vengo mai a trovarlo.
- Mi manca
l'aria – fece lei dopo un po', quando non eravamo nemmeno a metà strada.
Alla fine,
negli ultimi metri, camminammo mano nella mano, come quando stavamo insieme.
Non c'era nulla di sentimentale né tantomeno di erotico, in quel gesto. Lo
facevamo solo per incoraggiarci a vicenda e resistere alla tentazione di
tornare indietro.
Quando fummo
in fondo alla strada e si aprì il panorama, con la casetta di mio padre, gli
alberi, il bosco e le altre case in lontananza, Francesca mi lasciò
immediatamente e cominciò a camminare lontanissimo da me. Sentivo il suo
respiro rumoroso, forte quasi come quando me lo sparava nell'orecchio
attraverso il telefono.
Da dove
eravamo, non si vedeva la lunga linea grigia tracciata a terra, il confine, ma
solo gli alberi, qualche mucca lontana, le case, e poi ancora alberi, ancora
mucche, alberi sempre più fitti e un'ultima casa bianca, in fondo, coperta dai
fiori.
Papà ci vide
che non eravamo ancora arrivati e gridò dalla finestra.
- Non ci posso
credere! C'è anche Francesca!
Quando
raggiungemmo la porta, lui era già pronto ad accoglierci, con un sorriso a
tutta dentiera. Sembrava più giovane e più magro dell'ultima volta che l'avevo
visto. E sembrava più allegro del solito, tanto che Francesca si innervosì. La
conoscevo bene, Francesca: i suoi muscoli si irrigidirono, le tempie
cominciarono a pulsare, lo sguardo cominciò a vagare per la stanza in cerca di
un punto dove posarsi che non fosse la faccia ilare di mio padre, il baby
pensionato, il suocero detestabile, lo schiavista consapevole e sadico di mia
mamma.
Alla fine, la
mia ex moglie decise di guardare la macchinetta del caffè. Era una Piccolo
Dolce Gusto. Ne avevo vista una simile al Media World. La davano via per una
miseria, segno che le capsule dovevano costare un botto.
- Papà,
allora?
- Sedetevi,
ragazzi. Che piacere vedervi insieme. Ma vi siete rimessi...
Francesca
scosse la testa e urlò.
- Nemmeno per
sogno!!!!
Non accettò
l'invito a sedersi, mentre io mi avvicinai al tavolo e poggiai le terga su una
sedia bianca col cuscino morbido. Francesca, invece, se ne stette in un angolo,
vicino alla credenza dell'Ikea, con le braccia conserte e lo sguardo in fiamme.
- Papà,
allora? Questo caffè?
Lui sembrò
ricordarsene solo in quel momento, impacciato e confuso.
- Eh... Mah...
Era per vedersi, no? Non è che prendete il caffè e ve ne andate?... State un
po' con me, dai. Qui è un tale mortorio. Una volta andavo dai Piscopo in fondo
alla valle, ma ora c'è il confine. Anche per la spesa, devo chiamare qualcuno:
me la faccio portare dall'Esselunga e vogliono dieci euro in più, perché non
possono passare col furgoncino per l'ultimo pezzo. Quando esco, non vado oltre
la piazza. In piazza mi sento già stanco. A volte mi fermo a parlare con il
barista, ma il caffè costa sempre più caro. Io mi ricordo che costava
cinquecento lire, ora vogliono un euro per il caffè, un euro e venti per il
marocchino e un euro e trenta per il cappuccino. Perciò mi sono comprato la macchinetta,
tanto sono da solo.
Francesca
continuava a restarsene col culo attaccato alla credenza e continuava a
guardare la macchinetta, con tale intensità che alla fine mio padre si decise
ad aprire il cassetto con le capsule. Poi guardò. Prima guardò me, quindi
guardò Francesca. Francesca distolse gli occhi.
- Ho tre tipi
di caffè. Napoli, Cremoso e Deca. Se volete, ho anche la mini cioccolata e il
chocochino. E mi resta anche qualche capsula di Tè Marrakesh..
- Qual è il
più forte? - chiese Francesca, sempre senza guardarlo.
Sembrava un
po' meno arrabbiata di prima, però. Si era accorta che, a due passi dalla
macchinetta del caffè, c'era una finestra con le tendine scostate. Da quella
finestra si vedevano gli alberi oltre il confine. Per un attimo restò indecisa
tra la macchinetta e la finestra, poi optò per la finestra.
- Napoli – rispose papà.
- Allora io
Napoli – disse la mia ex moglie.
- Io cremoso – feci.
Francesca mi
guardò e sorrise. Sapevo cosa pensava, la conoscevo troppo bene. Pensava che
non avevo mai scelto la stessa cosa che sceglieva lei. Per spirito di
contraddizione.
Papà tolse il
contenitore dell'acqua da dietro alla macchinetta, la riempì con una bottiglia
di plastica Guizza, poi la mise a posto, infilò la capsula di Napoli e accese.
Dopo pochi secondi il caffè cominciò a fluire dentro una tazzina bianca. Alla
fine, prese la tazzina e la porse a Francesca, che fu costretta a guardargli le
mani.
- Lo zucchero
è dietro di te. E anche il cucchiaino. Mettine quanto ne vuoi.
Ripeté la
stessa operazione con una capsula di Cremoso in un bicchierino trasparente.
- Tu non bevi
caffè? - dissi.
Papà annuì.
- Napoli –
fece. Piano piano, compì ancora una volta il rito della preparazione facilitata
con capsula compatibile.
Francesca,
intanto, si era allontanata dalla credenza e avvicinata alla finestra. Adesso
guardava decisamente fuori. Mi avvicinai a lei con il bicchierino in mano. Si
scansò, ma non smise di guardare fuori.
- Stai
tranquilla – feci – Mica volevo toccarti.
Papà cominciò
a parlare di quando era giovane e poteva camminare dove voleva, di quando la
strada non c'era perché non c'erano tutti quei palazzi e tutti quei muri, di
quando aveva la patente e poteva portare la macchina fin davanti al cancello,
di quando gli amici lo venivano a trovare.
- Non si vede
nemmeno, il confine. Da qui, non si vede assolutamente – disse
Francesca.
Guardai
anch'io. Aveva ragione. C'erano alberi verdissimi e altissimi a perdita
d'occhio, c'era erba, c'erano cespugli, ma non si vedevano confini.
Che alberi
erano? Non l'avevo mai saputo. Sapevo che facevano fresco e che formavano un
tappeto di foglie cadute su cui era bellissimo camminare a piedi nudi.
Tra gli
alberi, mezza nascosta, si scorgeva la casa dei Piscopo. Qualche altra casa,
più lontana, si intravedeva appena o si intuiva. Poi c'era la la casa bianca
coperta di fiori in fondo. Nient'altro. Nessun confine. Nessun ostacolo.
- Papà – feci – Hai mai
pensato di fare domanda per andare a vivere di là?
Scosse la
testa.
- Perché no?
- Non ne sarei
capace – disse – Hanno le scuole tedesche. I bambini parlano tedesco. Nei bar
fanno il caffè col filtro.
I centri commerciali sono pieni di turchi e gira un sacco di gente ubriaca. Non
fa per me.
- Ma potresti
andare dai Piscopo senza problemi, se lasciassi questa casa e andassi ad
abitare di là. Potresti addirittura camminare in mezzo agli alberi.
- E poi – intervenne
Francesca – diciamocelo chiaro... Senza la signora, la sua abitazione si sta
riducendo a un immondezzaio. Non è facile abituarsi a fare le cose da solo, quando per
anni si è avuta la schiava. Si vede. Da quanto tempo non cambia le tende? Si
accorto di quanta sporcizia si è accumulata negli angoli e sotto i mobili? Ma
poi, parliamoci chiaro, un confine che è una linea segnata a terra che paura
può fare? Chi se ne frega???
- C'è il
cartello. Sorveglianza armata.
Francesca
guardò fuori.
- Dove?
- Attaccato al
primo albero dopo il confine.
- È quella
macchia gialla? Da qui non si legge, è troppo lontano.
- Sì. È
quella.
- Se ci fosse
sorveglianza armata, si vedrebbe. Io vedo solo delle mucche. Giorgio, vieni con
me? Andiamo a trovare i Piscopo. Me li ricordo, i Piscopo. Avevano una bambina
piccola.
- Ormai sarà
grande.
Senza porre
tempo in mezzo, Francesca si mosse e si diresse alla porta. Non ebbi la forza
né la possibilità di controbattere alla sua decisione e sapevo bene che, se non
l'avessi seguita, sarebbe andata da sola. La raggiunsi all'angolo della casa.
La stava aggirando per andare verso il confine.
- Sei sicura?
- sussurrai.
- Se non andiamo,
tuo padre rimarrà sempre lì da solo, con la sua macchinetta a capsule,
sporcherà sempre di più e ti romperà sempre di più le palle chiedendo di
andarlo a trovare. Se invece vede che raggiungiamo la villetta dei Piscopo,
prenderà coraggio e ci seguirà. E poi magari comincerà ad andarci spesso. O
magari loro andranno a trovare lui.
- Sono sei
anni che il confine è chiuso e nessuno si è mai visto, né lui ha mai visto
nessuno. Le cose cambiano, in sei anni. Non sappiamo se ci sono ancora i
Piscopo, oltre il confine.
Sorrise.
Sembrava forte e serena.
- Ci toccherà
scoprirlo – disse.
A larghe
falcate raggiunse il retro della casa. Ci voltammo e vedemmo mio padre fermo
dietro il vetro della finestra. Sorseggiava lentamente il suo Napoli,
serissimo.
Francesca mi
tese la mano.
- Dai, andiamo
insieme.
- No, per
favore, mio padre guarda.
- Mia voglio
rimettermi con te. È come prima, sulla strada.
- Ma lui pensa
male.
- Lascialo
pensare.
Mi feci
convincere. Le diedi la mano. Lei me la strinse.
Camminammo. La
linea grigia era più vicina di quanto pensassimo, solo che era nascosta in
mezzo all'erba diventata alta. Ci guardammo e superammo il confine all'unisono,
come due soldati nazisti impegnati nel passo dell'oca.
Non successe
nulla. Francesca cominciò a sorridere. Poi a ridere.
Ci voltammo
entrambi, istintivamente, a guardare la finestra. Papà era lì e beveva ancora
caffè. La sua espressione sembrava identica a prima, serissima e indecifrabile.
- Qual è la
casa dei Piscopo? - disse Francesca.
Avevamo le
mani strette e calde. Sentivo un brivido passare dal mio braccio al suo, e
viceversa.
Istintivamente,
la presi tra le braccia. La strinsi. Ricordai il suo profumo, il profumo di
quando avevamo fatto l'amore per la prima volta. Il profumo indimenticabile,
che avevo dimenticato, dell'anima gemella.
Fu un istante.
Poi lei si irrigidì. Mi allontanò. Mi guardò gelida.
- Dov'è la
casa dei Piscopo? - chiese.
Le indicai la
prima villetta, mezza nascosta tra gli alberi.
- Ok – fece – Andiamo?
Non le risposi.
Me ne stetti immobile a guardarla. Era bellissima. Bellissima e gelida come
quando l'avevo sposata.
- Che ti
prende? - disse.
Non seppi
risponderle, perché nella testa avevo una risposta confusa. Era qualcosa che
riguardava il confine che avevamo oltrepassato anni prima, quando avevamo
smesso di volerci bene, quando ci eravamo dimenticati dei nostri odori, quando
lei aveva cominciato a dirmi che puzzavo.
Era un confine
che non si vedeva, anche quello. Ma lo avevamo passato insieme e non potevamo
tornare indietro. Non potevamo superare più nessun confine, insieme, nemmeno
nascosto nell'erba.
- Io non vengo
– dissi – Torno da papà.
Assunse
un'espressione interrogativa, serissima. Serissima come quando mi aveva detto
che una sua amica le aveva dato il nome di un avvocato e che avrei dovuto
cercarmi un avvocato anche io.
- Poi mi
racconti – dissi.
Le voltai le
spalle e cominciai a camminare. Cercai nella casa della mia infanzia un punto
su cui soffermarmi che mi evitasse di invertire la marcia e guardare indietro.
Lo trovai quando i miei piedi avevano ormai calpestato la linea grigia.
Erano gli
occhi di mio padre.
Bella storia..é difficile che io legga..ma questa mi ha portato fino alla fine
RispondiEliminaBella Gianni, sei proprio bravo.
RispondiEliminae ci piaci Gianni, ci piaci assai!
RispondiEliminaMolto bello, complimenti Gianni
RispondiEliminaEmozioni
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