3-3-2019: presso la Biblioteca Di Rescaldina nella giornata "IL VIZIO DI SCRIVERE" sull'argomento "Le città dimenticate" Marina Fichera ha scritto questo splendido racconto dal titolo "Figlia dei Fiori"
a lato il video della canzone "Our last summer" dal film "Mamma mia"
Quando ero giovane, negli anni
sessanta, ero una figlia dei fiori. Anche se i miei genitori borghesi non hanno
mai approvato, io ero una di quelle che facevano l’autostop in giro per il
mondo e che suonavano la chitarra agli angoli delle strade per raccattare
qualche spicciolo. Lo so, ne sono certa.
Perché anche se ogni tanto non mi
ricordo di aver messo la caffettiera sul fuoco, le cose di quando ero giovane
me le ricordo bene, benissimo.
Quando ero giovane ho viaggiato
molto. Da sola, con la comitiva o con il ragazzo del momento. In fondo
professavamo l’amore libero, ogni sguardo era un po’ come innamorarsi. Ogni
gesto era vera emozione, ogni viaggio scoperta e rischio. E io ero bella,
davvero bella. Ovunque andassi tutti si giravano a guardarmi. Uomini, donne,
bambini, tutti. Talvolta mi sembra di ricordare ogni singolo sguardo che si è
posato su me. Talvolta mi sembra di essere ancora quella di un tempo, e di
esser ancora lì, in una delle città che dove ho vissuto in libertà.
Certe volte erano poche settimane
a casa di uno squattrinato attore di teatro, come quella volta, ma si dai, in
quella città meravigliosa. Quella attraversata dal fiume, con le bancarelle dei
libri e i pittori di strada lungo gli argini. La città dove l’amore era sempre
la cosa più importante, ma subito dopo c’era l’arte, la musica, la poesia. Me
lo ricordo benissimo, era autunno e le strade erano ricoperte di foglie gialle
che scricchiolavano sotto i nostri passi veloci. La città aveva una luce
magnifica, così piena di vita, vibrante di ribellione, di voglia di cambiare il
mondo. Quella mattina passeggiavo per le vie del quartiere degli artisti,
quello famoso dai, come si chiama… a tutte le ore dalle finestre delle case
usciva musica e odore di canne. Era inebriante.
Girai l’angolo di una stretta
strada e mi ritrovai davanti una festosa folla. Migliaia di giovani marciavano
verso l’ingresso dell’università. Mi tuffai in quella marea umana senza alcuna
esitazione! Mi ricordo benissimo la sensazione di potere, di dominio del nostro
presente e del nostro futuro che avevamo tutti. Sapevamo che avremmo cambiato
il mondo, che eravamo lì per fare la
storia e che lottavamo per qualcosa di vero e giusto. Mi ricordo che a un certo punto mentre marciavo e cantavo accadde qualcosa.
Un passo indietro della folla. I fumogeni. Presi una manganellata in testa, ne
sono certa perché ho ancora la cicatrice sulla tempia destra. Il sangue caldo
scorreva davanti ai miei occhi, mi risvegliai in un’aula con dei ragazzi che mi
stavano curando. Mentre noi volevamo cambiare il mondo, fuori dalla finestra la
città ululava di rabbia. Di quella città di cui ora non rammento il nome
ricordo quanto era bello passeggiare per le ampie vie, tra bianchi palazzi e bancarelle di libri usati.
Tornai a sud. Avevo bisogno di
calore mediterraneo per calmare la mia inquietudine. Arrivai in una nuova città
che era primavera, era il ‘74 o il ‘75, non ricordo l’anno esatto. Però
rammento benissimo che c’era un fiume. Bello, biondo, sinuoso. C’era un’atmosfera pesante in città, la
chiamavano austerity. La sera si usciva quasi di nascosto e si andava nei
circoli comunisti a bere, suonare, discutere di politica. Fuori i lampioni
facevano poca luce e le strade dopo le 22 erano semi deserte. Il cupolone
dall’altra parte del fiume ci osservava. Se ne stava li praticamente da sempre,
austero e giudicante. Noi ci giravamo dall’altra parte e facevamo finta che non
ci fosse. Eravamo liberi noi, liberi e belli. Beh, almeno così credevamo. Tra
un lavoretto e una manifestazione mi ero ormai abituata agli odori agri e alla
luce abbacinante della città. Era bellissima e decadente, una vecchia matrona
caduta in disgrazia dal fascino consunto.
Io vivevo nel ghetto, in una
stanza che si affacciava sui tetti rossi, condivisa con una ragazza scappata
dalla Cecoslovacchia, o forse era l’Ungheria, chissà. Le case dall’intonaco
ocra erano romantiche, le viuzze strette e sporche, era tutto così…
malinconico? Forse. Si. Malinconico ma romantico. Almeno fino a quel giorno in
cui tutte le radio e la gente per le strade, come presa da un virus di follia
collettiva, si misero a urlare “L’hanno rapito! L’hanno rapito!”. Confesso di
non ricordare il nome del rapito, ultimamente mi dimentico un sacco di cose, lo
so, ma ricordo benissimo che la tensione aveva avvolto la città come la fitta
nebbia del nord avvolgeva la mia città natale in inverno. Di quella città ora
ricordo solo la luce e il calore del sole quando mi affacciavo alla finestra e
l’odore di piscio per le strade del quartiere.
Tornai a casa, ma non riuscii a
resistere per molto. Andai a nord, presi
due treni, poi un traghetto e un altro treno ancora. Arrivai in una
città con un fiume veloce e largo che l’attraversava da est a ovest. Una
metropoli a tratti nera come il carbone, antica, all’apparenza austera ma la cui
vera natura era fatta di trasgressione, vitalità e un po’ di follia.
Mi piazzai in una triste stanza
condivisa con un’altra italiana e cercai un lavoretto. Erano i primi anni ’80,
non saprei dire l’anno esatto, ma poco importa. La sera lavoravo come cameriera
in un pub in un quartiere pieno di locali di ogni tipo, discoteche, pub,
bordelli semi clandestini. Le luci non si spegnevano mai in quel quartiere,
proprio mai. Avevo deciso che quella era la città per me.
Quando non avevo nulla da fare
andavo lungo il fiume. Camminavo sui ponti e sotto le torri che si affacciavano
sugli argini. Passavo le ore a osservare quel corso d’acqua e non mi annoiavo
mai. E invidiavo quell’acqua che scorreva da sempre nella stessa direzione,
mentre io ancora non avevo deciso quale direzione dare alla mia vita. Al tempo
stavo con un bel musicista, si direi che fosse più bello che bravo, ma a me andava bene così, dovevo
andarci a letto con lui, non suonarci insieme, ne sono sicura.
La musica, si ricordo la musica
di quegli anni. Tanta musica, diversa da quella del decennio precedente. Il
mondo stava cambiando ancora una volta e lo faceva anche attraverso suoni e
ritmi nuovi. In città i music club in cui si esibivano gruppi e cantanti erano
centinaia. Era tutto così, così eccitante in quella città che quasi non ricordo
del motivo per cui me ne andai. Magari se mi concentro mi viene in mente, non
saprei.
So che arrivai in città che era
inverno. Aveva nevicato, le strade erano ghiacciate e scivolose. Se dovessi dire perché decisi di andare
proprio lì, béh non saprei. Ricordo che era caduto un muro. Fisico e metaforico,
e io volevo essere lì dove il mondo ancora una volta stava cambiando, a est.
La prima cosa che andai a cercare
fu il fiume. Com’era bello! Attraversava la città così largo, calmo. Quasi
fosse un fratello maggiore che poggia la mano sulla spalla della sorellina per
proteggerla. Che strana città trovai, quasi sospesa nel tempo. Eravamo nei
primi anni ’90 ma la città per certi versi era rimasta agli anni ’50. Antiche residenze
del centro e oscuri palazzi delle periferie facevano da contorno a un’umanità
ubriaca della sua nuova libertà. Le strade erano ricoperte di ghiaccio e folla.
Fu un periodo difficile sotto molto aspetti ma indimenticabile per altri. Lo
sguardo luminoso delle persone, quello proprio non me lo potrò mai dimenticare,
ma non potevo rimanere li. Sapevo che una nuova città, un nuovo fiume mi
chiamavano a gran voce.
Il nuovo millennio si stava
avvicinando e tornai a sud. Era estate,
ne sono certa. In una splendida domenica
d’estate giunsi alla città dove vivo ancora oggi. Quando vidi quel fiume decisi
che li sarei rimasta, così, d’istinto. Avevo girato così tanto e così tanti
fiumi avevamo lambito la mia vita. Quello era il momento di fermarmi, me lo
aveva detto l’acqua sulla quale si rispecchiava la città vecchia e i suoi
ponti, i suoi palazzi antichissimi, le mille botteghe artigianali.
Ancora oggi mi affaccio alla
finestra e vedo il mio fiume, il mio ponte, la mia città, Firenze. L’unica di
cui ricordo ancora il nome. I nomi di tutte le altre li ho dimenticati, ma ho
non dimenticato quello che in quei luoghi ha vissuto la mia pelle, le mie ossa
rotte. Perché ero e sarò sempre una figlia dei fiori, anche quando dimentico la
caffettiera sul fuoco acceso e brucio tutto.
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