il corpo di quest'uomo mostra uno stato di denutrizione e malnutrizione: il suo lavoro massacrante non è sufficiente neppure a pagargli un cibo adeguato ai bisogni |
In questi luoghi si
violano tutti i giorni da sempre i diritti umani fondamentali: non possiamo
accettare ancora oggi lo schiavismo, come nell’Ottocento. Pensiamoci, quando
usiamo lo zucchero.
mani e machete, strumenti del mestiere |
Articolo di Raùl Zecca Castel
Repubblica Dominicana: dove il mare è sempre vicino e le montagne non sono mai lontane. Così recita uno dei tanti slogan pubblicitari del paese rivolto al turismo internazionale, sempre più avido di bellezze esotiche a patto che queste non implichino troppa fatica. Ma oltre le immagini da cartolina che ricoprono i pieghevoli delle agenzie di viaggio di tutto il mondo, quelle immagini così seducenti e incantevoli che ritraggono la prima città del Mondo Nuovo, Santo Domingo, del suo antico centro coloniale, così come delle innumerevoli spiagge di sabbia bianca e finissima che si stendono per chilometri a baciar le acque cristalline e sempre tiepide del mar dei Caraibi, al di là del volto più attraente e conciliante della sua natura selvaggia e incontaminata, al di là di tutto ciò, esiste una realtà ben diversa, tanto ignota quanto drammatica. È il volto scuro dell’entroterra, delle sterminate piantagioni di canna da zucchero che si perdono a vista d’occhio, dei bateyes, piccoli agglomerati di baracche dispersi tra i campi, creati per ospitare i lavoratori durante la stagione del raccolto e diventati, con il passare del tempo, vere e proprie comunità invisibili, baluardi della povertà e dell’emarginazione; è il volto scuro, anzi nero, dei braccianti haitiani; perché a vivere in queste terre di nessuno e a svolgere questo lavoro incredibilmente duro e pericoloso sono loro, i migranti haitiani, scappati a migliaia dalla miseria del paese più povero e sventurato del continente americano con la speranza di trovare oltre frontiera un modo per sopravvivere e mantenere famiglie spesso troppo numerose.
Tragedia umana che ogni anno si rinnova, mietendo con
altrettanta regolarità i sogni di riscatto di quanti si trovano presto a fare i
conti con una vita di stenti, fatica e tanta solitudine. Senza documenti e con
un salario che a malapena permette loro di procurarsi un pasto giornaliero, la
maggior parte dei lavoratori finisce per trascorrere la propria vita qui,
lontano dall’affetto di cari che non rivedranno mai più.
In seguito al picco di produzione degli anni ’70 e ’80 il
mercato internazionale dello zucchero subì un vero e proprio collasso
economico. La Repubblica Dominicana, che assieme a Cuba ne rappresentava il
principale paese esportatore, da una media annuale che superava il milione di
tonnellate si ridusse a produrne meno di 300 mila. La grave crisi cui dovette
far fronte il Consejo Estatal del Azùcar (CEA) si risolse in pochi anni con la
decisione affittare la quasi totalità delle piantagioni e i rispettivi zuccherifici
statali a diversi investitori privati, per lo più a capitale straniero.
Tra questi si distinse in modo particolare la compagnia
guatemalteca Campollo, che dopo essersi aggiudicata il maggior numero di terre,
strinse un proficuo accordo commerciale con il gruppo Vicini, famiglia di
origini italiane tra le più ricche e potenti del Paese, con interessi economici
in svariati settori, dal turismo alla finanza, dal mercato immobiliare ai
media, oltre che nell’industria dello zucchero, di cui possiede la più grande e
antica fabbrica di raffinamento, l’Ingenio Cristobal Colòn, attivo sin dal 1921. Ciò che ne risultò fu a
tutti gli effetti una situazione di monopolio oligarchico e, a pagarne
letteralmente il prezzo, come prevedibile, furono i braccianti haitiani.
Molti di questi, dato il calo di lavoro – e di salario -,
abbandonarono le piantagioni di canna per stabilirsi nei vicini centri urbani,
cercando di che vivere nel lavoro informale, vendendo prodotti d’artigianato o
frutta di stagione da loro stessi raccolta, e approfittando del crescente
turismo. Molti altri, invece, rimasero nei bateyes, perché, nonostante tutto,
un po’ di lavoro c’era, o perché lì avevano messo su famiglia, o ancora perché
non disponevano nemmeno del denaro sufficiente per pagarsi il viaggio per
andarsene, o perché la speranza di trovare una vita migliore era già stata
tradita una volta e non avevano più la forza per crederci di nuovo, o, molto
spesso, per tutti questi motivi insieme. Così sono migliaia gli haitiani che
ancora popolano i tanti bateyes dispersi tra le immense piantagioni di
zucchero, dove lavorano più di dieci ore al giorno, tagliando anche 3-4
tonnellate di canna per l’equivalente di pochi dollari, appena sufficienti per
una ciotola di riso e una manciata di fagioli, quanto basta per tirare avanti
un altro giorno.
Senza più sogni, le notti scorrono veloci dentro i
barracones, vere e proprie baracche in legno, lamiera o cemento, composte da
una serie di stanze singole, spesso prive di finestre, il cui unico arredamento
consiste di quanti più letti a castello possono starci. Ma non di rado ci si
accontenta anche di un semplice materasso in gommapiuma steso sul pavimento.
Dormono fino a 7-8 braccianti in un ambiente che spesso non raggiunge i 10
metri quadrati, senza luce elettrica, acqua corrente e gabinetto, in condizioni
igienico-sanitarie indescrivibili. Qui le giornate iniziano presto, ben prima
del canto del gallo.
“Ci svegliamo alle 4 del mattino”, mi spiegano, “alle 5
passa il pullman della compagnia a prenderci e alle 6 stiamo già tagliando la
canna”. Il lavoro si protrae anche per 12 ore, sotto il sole cocente così come
sotto i frequenti temporali che abbondano con l’inizio della stagione delle
piogge. Sono passati solo pochi giorni da quando un fulmine ha carbonizzato un
lavoratore haitiano di 54 anni, colpito in pieno mentre stava tagliando canna
con il suo machete. Tutti continuano a ripetermi che è un lavoro duro,
sfiancante e pericoloso”.
“Ci vedi partire belli dritti la mattina e quando si fanno
le 9 o le 10 siamo già tutti tremolanti…perché partiamo digiuni, senza far
colazione e senza dietro niente da mangiare…è il diavolo stesso che ci ha
portati qui!”, si sfoga Pedro, che incalza: “tutto questo è una schifezza!
Quando finirà la schiavitù in questo paese? Qui c’è la schiavitù ancora…con una
parvenza democratica…ma quale maledetta democrazia soffrendo la fame della
storia?…Democrazia con fame? Democrazia con miseria? Democrazia con tutti i
problemi del mondo? Se non cambia niente qui succederà qualcosa…non lo voglio
io, non lo vogliono loro, non lo vuole nessuno…ma qui stanno provocando…perché
non si sopporta più! Bisogna pagare il lavoratore, perché per il milionario e
per l’alto funzionario qui c’è denaro! È per noi che non c’è! Siamo noi che
facciamo il lavoro duro nei campi, nella canna! Siamo noi! Non sono loro a
sudare! Siamo noi che alle 4 del mattino siamo già in piedi…e che non possiamo
vedere nemmeno il rendimento del nostro lavoro?! Che altri vengano a
beneficiarsi del sudore della nostra fronte?! È una vergogna!”. “Stanno
abusando di noi lavoratori”, aggiunge un ragazzo. E come dargli torto? Stremati
dalla fatica, dal caldo e dalla fame, quando la sera i braccianti rientrano al
batey, tutto quel che hanno guadagnato finisce direttamente al negozio degli
alimentari, dove alcuni addirittura si indebitano.
Il sistema di retribuzione del consorzio Campollo-Vicini
infatti è alquanto curioso. Ufficialmente i lavoratori vengono pagati per
tonnellata di canna tagliata, ma il prezzo non è chiaro a nessuno. Alcuni
dicono che per quella quantità ricevono 135 pesos (2,35 euro), eppure altri
sostengono che ne ricevono 125, ed altri ancora solo 110. Infine, qualcuno
assicura che sono 100 i pesos pagati per tonnellata. La verità, come confessano
rassegnati tanti altri, è che non si sa: “Nessuno lo sa…nessuno…quando arriva
il sabato…andiamo al Centro Paga e quello che ci danno prendiamo…”.
Centro Paga,
Batey Nuevo, Quisqueya. A intervalli regolari di circa 20-30 minuti
decine di braccianti haitiani vengono fatti scendere dagli autobus dell’impresa
all’interno dell’area recintata in cui si trova la piccola costruzione in
cemento adibita ai pagamenti, ben protetta da alcuni agenti di polizia e
sicurezza privata. Grazie alle conoscenze del mio accompagnatore, un colonnello
di guardia mi concede il permesso di entrare, così senza perdere altro tempo
comincio a scattare qualche fotografia. Intanto, i lavoratori che si apprestano
a ricevere il frutto delle ultime due settimane di lavoro, consegnano le loro
tessere identificative a un addetto della compagnia che a sua volta si incarica
di spartirle fra i 3 impiegati seduti dietro al vetro di protezione dei
rispettivi sportelli.
In men che non si dica ha inizio il tanto atteso appello.
Uno ad uno i lavoratori vengono chiamati a ritirare la quincena, e altrettanto
velocemente il malcontento si diffonde tra i braccianti. Occhi increduli
fissano la ricevuta per minuti interi in cerca di qualche spiegazione che
chiarisca l’equivoco, ma la realtà è ben scritta su quel piccolo foglio rosa.
Tuttavia ci vuole poco per rendersi conto di come questa realtà sia molto
diversa da quella ufficiale. Di tonnellate infatti nemmeno l’ombra. Ciò che
viene riportato sulla ricevuta invece è il numero dei bocados, letteralmente
‘bocconi’.
Così, un giovane lavoratore mi spiega che quando tagliano la
canna, questa va raggruppata in mucchi di medie dimensioni comunemente chiamati
bocados affinché la gru della compagnia possa poi raccoglierla con maggiore
facilità e dunque caricarla sui camion che la trasportano alla fabbrica. In
teoria, tre bocados equivalgono ad una tonnellata. Questa almeno era
l’equazione stabilita dai Campollo prima che iniziasse la stagione del
raccolto. A distanza di poche settimane, tuttavia, l’impresa sembra averci
ripensato. Adducendo come giustificazione la difficoltà di stabilire l’esatta
dimensione del mucchio di canna, ora ci vogliono anche anche 6 o 7 bocados per
fare una tonnellata. Per questo, anche se Edoardo dice di averne accatastati 50
di bocados, sulla ricevuta ne sono riportati solo 36. Eppure non sembra
meravigliarsene più di tanto, così gli chiedo se è la prima volta che capita.
“No! Sempre succede! Sempre…non mi danno mai quello che mi spetta…”. Accanto a
lui altri due ragazzi contrariati sostengono di aver tagliato rispettivamente
110 e 146 bocados, ma la ricevuta che agitano con rabbia ne attesta appena 99
in un caso e 126 nell’altro. “Questa gente sono dei ladri”, urla qualcuno prima
di confidarmi che “c’è un ragazzo, là, che sulla ricevuta c’è scritto 2000 e
passa pesos, e quando ha aperto la busta ne ha trovati 1500…”. Anche questo
sembra essere all’ordine del giorno. Alcuni infuriati continuano a ripetere che
non hanno intenzione di accettare la busta, che intendono reclamare, ma qui al
centro paga nessuno è autorizzato a dare spiegazioni. Per le contestazioni è
necessario recarsi all’apposito ufficio di Quisqueya, il lunedì; cosa che non
solo implica perdere un giorno di lavoro, ma anche sostenere le spese del
viaggio, per poi sentirsi rispondere, nel migliore dei casi, che la ricevuta
parla chiaro e restare dunque letteralmente a bocca asciutta.
Forse è vero. Forse va davvero bene così. Anzi, va proprio
bene così. Certo, non per le migliaia di migranti haitiani che sopravvivono
giorno dopo giorno in condizioni di neoschiavismo, soffrendo la fame, gli abusi
sul lavoro e le violazioni dei più elementari diritti umani. Non per i loro
figli, cresciuti alla scuola della miseria, vittime facili di malnutrizione e
malattie, destinati a ricevere come unica eredità un conto in debito al negozio
degli alimentari e un machete con cui illudersi di poterlo saldare. Non per le
loro mogli, diventate madri quando ancora bambine, invecchiate in fretta mentre
risvegliavano dal sogno di una vita migliore oltrefrontiera e ormai rassegnate
ad un’esistenza infame.
Non per loro, certo, che sono gli ultimi tra gli ultimi. E
nemmeno per il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, che proprio questo
venerdì 27 settembre 2014, ha pubblicato un dossier nel quale sostiene come la
Repubblica Dominicana abbia violato gli accordi del Trattato di Libero
Commercio CAFTA-DR sottoscritto nel 2007, poiché non rispetta il capitolo
relativo alle direttive sul lavoro (salari minimi, ore di lavoro, sicurezza e
salute; età minima per l’impiego di bambini; forme di lavoro forzato o
obbligatorio). Ma in fondo che importa, se va così bene per gli affari della
famiglia Campollo e della famiglia Vicini? Che importa, se va così bene per i
vari governi che si sono succeduti alla guida del paese nell’ultimo secolo, dal
momento che non hanno mai avuto la preoccupazione di pagare un solo centesimo
né di assicurazione medica, nonostante i continui incidenti sul lavoro, né di
pensione di vecchiaia?
Che importa, se va così bene per il mercato internazionale, che acquista zucchero dominicano a buon prezzo senza curarsi dell’immenso costo umano che questo implica per i lavoratori?
Raul Zecca Castel
Nato a Milano nel 1985 è laureato in Filosofia e
Antropologia. Per la sua tesi di laurea ha realizzato una ricerca sul campo
nella Repubblica Dominicana, dove ha vissuto per cinque mesi in una comunità di
braccianti tra le piantagioni di canna da zucchero. Qui ha raccolto oltre 200
interviste in profondità e scattato
quasi 2000 fotografie di tipo documentaristico, per testimoniare e denunciare i
soprusi che i lavoratori sono costretti a subire dalle imprese zuccherificie.
Il materiale raccolto ha portato alla redazione di una tesi dal titolo
"Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei braccianti haitiani nelle
piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana", discussa
presso l'Università degli Studi di Milano-Bicocca, oltre che a una mostra
fotografica allestita in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani
presso l'Urban Center di Monza.
Il seguente articolo è già stato pubblicato sulla rivista cartacea “In Dialogo” - dicembre 2013, numero 102 - e in "Osservatorio America Latina” - 15 gennaio 2014 -. Le fotografie e il testo sono pubblicati col permesso dell'autore stesso.
è impressionante quello che racconta! scandaloso che nel XXI secolo ci sia ancora la schiavitù, mi fa rabbia sapere e non poter fare niente...
RispondiEliminaIn realta basta leggere il libro Bilal di Gatti per capire che lo sfruttamento è anche nel nostro paese e non è solo lo zucchero ma tanti altri prodotti.
RispondiEliminasono d'accordo con te: è nel nostro paese e in tante parti del mondo dove esseri umani producono oggetti vestiti tecnologie, quasi tutto quello che usiamo, sfruttati in modo indegno. Questo articolo e la mostra di Raul mi hanno colpito perchè ne sono venuta a contatto diretto. Ma possiamo considerarlo un simbolo di una realtà inaccettabile che dobbiamo combattere con tutte le nostre forze, secondo le nostre possibilità.
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