Per Il vizio di scrivere, edizione di gruppo online il 5 aprile 2020, Valeria Pisano ha scritto questo emozionante racconto
Dicono
che fare i genitori sia il mestiere più difficile del mondo. In effetti non è
stato per niente facile diventarlo, soprattutto dopo che la via naturale mi è
stata preclusa, e che, con quello che era allora mio marito, abbiamo dovuto affrontare
lunghi anni di burocrazia, di speranze e attese. C’era quella possibilità
sottesa, che non veniva mai dichiarata, ma che stava sempre lì, che io venissi
giudicata “non idonea” a diventare madre, e questo era molto peggio di non
esserlo stata con le consuete modalità. C’è voluta grande fede e grande
costanza, per andare avanti.
Ma
i miracoli accadono, e così, in un indimenticabile giorno felice, un frugoletto
di sei mesi mi è stato deposto tra le braccia, in un immenso e strapieno
orfanotrofio di una città sudamericana. È stato amore a prima vista, e ricordo
benissimo quel lampo di intuizione, mentre aspettavamo di entrare nell’ufficio
del giudice del tribunale dei minori, quella certezza che mi si è accesa
dentro: questo bambino non deve diventare come me! Sapevo già che avrebbe
trascorso con me la maggior parte del tempo, e sapevo anche che il rischio che
accadesse era elevato.
Ero
così giovane, e, a pensarci adesso, agli albori della mia crescita. Ero il
prodotto dell’educazione che avevo ricevuto; c’era tanta chiusura, tanti sensi
di colpa e d’inadeguatezza, c’era la sensazione che qualcosa non andasse bene
in me, c’era timidezza e vergogna.
Siamo
tornati a casa e, per rispettare quel giuramento fatto a me stessa, per
permettere a mio figlio di sentirsi bene nei suoi panni, ho dovuto cambiare io.
In realtà ci ho provato, ad applicare le regole rigide che mi avevano
trasmesso, ma non ho mai ottenuto niente con lui, in questo modo. Non so se
siano stati quei sei mesi vissuti da solo, steso in un lettino, senza che
nessuno si occupasse di lui, afferrando il biberon che veniva legato alle
sbarre e portandoselo alla bocca, che hanno creato la sua caparbietà, il suo
modo di far sì che le cose vadano come vuole lui; oppure l’essere nato sotto il
segno dell’Ariete, con una testa dura che ti sfianca.
Niente
da fare, potevo dirgli le stesse cose centinaia di volte, ma non serviva a nulla.
È stato grazie a lui che ho imparato la flessibilità.
Gli
ho parlato anziché sgridarlo, dopo che la maestra dell’asilo mi ha chiamata per
dirmi che ogni giorno faceva la lotta con un altro bambino; gli ho chiesto come
mai, e mi ha raccontato degli insulti che riceveva, e gli ho spiegato che
poteva smettere di reagire, che non era obbligato a farlo. “Anche se insultano
te, mamma?” “Certo! Mi vedi arrabbiata, forse? E se non me la prendo io perché
devi prendertela tu?”
Ho
rinunciato alla mia ambizione di avere un figlio bravo a scuola, e mi sono
presa quel brillare negli occhi delle sue maestre alle elementari, che non
riuscivano a non sorridere, mentre mi raccontavano l’ennesima volta in cui
avevano dovuto riprenderlo, perché faceva il buffone per far ridere tutta la
classe, ed erano costrette a mettergli delle note sul diario.
Ho
accettato che non seguisse le regole, che mi ha detto di odiare, fin da quando
era piccolo. Ho ascoltato infinitamente la sua risposta “non abbiamo niente da
fare” ogni volta che gli chiedevo se avesse dei compiti per il giorno dopo. Gli
ho dato la certezza che lo amavo, anche se non si comportava come avrei voluto.
Ho
lasciato che se la cavasse da solo, in qualche modo, nella vita, gestendo le
sue sfide grandi e piccole, dagli insulti, alle botte, all’inventarsi qualcosa
per cavarsela a fine anno scolastico, studiando il meno possibile, e soprattutto
d’estate.
Sono
stata quella che c’era sempre, e orgogliosa di lui per cose diverse rispetto a
quelle che avrei desiderato.
Mi
sono trasformata in una persona completamente diversa da ciò che ero, grazie a
molti percorsi di crescita, ma soprattutto imparando la flessibilità da quel
bambino che ho accolto tra le braccia, quasi ventotto anni fa. È la qualità che
mi è più utile, nei continui cambiamenti della vita, quella che mi aiuta ad
accettare le cose come sono, e a creare modi per trasformarle.
È
l’allenamento che ho fatto con lui che mi rende capace di aiutare le persone
che si rivolgono a me, nel mio lavoro. Perché in tutta quella fatica che mi è
costata diventare grande, in tutto quell’accettare ciò che accadeva malgrado
me, ho imparato a guardare sempre la Luce che brilla dentro le persone, a
cercare le qualità che hanno, anche quando sembrano nascoste, a riconoscere i
loro doni naturali, ad aiutarle a scoprire la loro missione di vita, perché non
sanno quasi mai qual è.
E
tutto questo grazie a quel bambino, che mi ha obbligata ad accettarlo com’era,
e a fargli capire che poteva essere se stesso, nonostante tutto e tutti.
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