"Sono le parole che cantano,
che salgono e scendono. Mi inchino dinanzi a loro. Le amo, mi ci aggrappo, le
inseguo, le mordo, le frantumo. Amo tanto le
parole. Quelle inaspettate. Quelle che si aspettano golosamente, si spiano,
finché a un tratto cadono. Vocaboli amati. Brillano come pietre preziose,
saltano come pesci d'argento, sono spuma, filo, metallo, rugiada. Inseguo alcune
parole. Sono tanto belle che le voglio mettere tutte nella mia poesia. Le
afferro al volo, quando se ne vanno ronzando, le catturo, le pulisco, le
sguscio, mi preparo davanti il piatto, le sento cristalline, vibranti, eburnee,
vegetali, oleose, come frutti, come alghe, come agate, come olive. E allora le
rivolto, le agito, me le bevo, me le divoro, le mastico, le vesto a festa, le
libero. Le lascio come stalattiti nella mia poesia, come pezzetti di legno
brunito, come carbone, come relitti di naufragio, regali dell'onda. Tutto sta
nella parola.
Tutta un'idea cambia perché una parola è stata cambiata di posto, o perché un'altra si è seduta come una reginetta dentro una frase che non l'aspettava e che le obbedì. Hanno ombra, trasparenza, peso, piume, capelli, hanno tutto ciò che si andò loro aggiungendo da tanto rotolare per il fiume, da tanto trasmigrare di patria, da tanto essere radici. Sono antichissime e recentissime. Vivono nel feretro nascosto e nel fiore appena sbocciato."
Tutta un'idea cambia perché una parola è stata cambiata di posto, o perché un'altra si è seduta come una reginetta dentro una frase che non l'aspettava e che le obbedì. Hanno ombra, trasparenza, peso, piume, capelli, hanno tutto ciò che si andò loro aggiungendo da tanto rotolare per il fiume, da tanto trasmigrare di patria, da tanto essere radici. Sono antichissime e recentissime. Vivono nel feretro nascosto e nel fiore appena sbocciato."
da “Confesso che ho vissuto” 1973,
di Pablo Neruda