Storie di donne di batey (baraccopoli) nella Repubblica Dominicana, che ho raccolto parlando con loro: non ci sono parole per descrivere quello che ho provato ascoltando loro e altre persone.
Lascio a voi che leggete i pensieri e le emozioni che questi racconti possono suscitare.
Sono donne che vivono senza documenti nelle piantagioni di canna da zucchero, la condizione degli haitiani clandestini è agghiacciante...attorno l'isola dei sogni tropicali tra resort e spiagge stupende. Un finto paradiso, un turismo placebo, come una spolverata di zucchero su una realtà di cui pochi sono consapevoli.
...E la condizione degli uomini non è migliore, sono "schiavi in libertà".
pag 135
Madri di zucchero bruciato
Click.
Davanti al mio obiettivo si mettono in
posa e sorridono.
Non importa il vestito logoro, non
importa la pettinatura improbabile, neppure lo sfondo della casetta o della
baracca di legno pericolante. Essere fotografate le riempie d’orgoglio, mi sto
interessando a loro.
Pelle giovane, di mille sfumature di
cioccolata, dal fondente al latte più chiaro, è liscia e stranamente asciutta
sotto il calore allucinante che fa scoppiare i pori della nostra pelle bianca.
Pelle nera con rughe feroci, gonfia di
mille pene, sculture di una storia: solo quaranta anni, sudati sangue.
Click.
I capelli neri e crespi sono sempre
domati e stretti in mille forme fantasiose: le bambine sono splendide con i
loro codini treccine rotolini rasta, pieni di perline e nastri colorati, le
donne hanno la passione per unghie e capelli, ma certe madri hanno poco tempo
per sé, o farse non hanno troppa voglia di curarsi, si accomodano una retina e
via. Anche lo stato dei capelli parla della loro vita.
Click.
Sono gli occhi che colpiscono fino in
fondo al cuore: con la forma a mandorla delle antilopi e con la rima nera non
hanno bisogno di trucco per essere bellissimi, dolci e miti, arrendevoli e
rassegnati.
Le donne giovani hanno occhi che
sorridono, c’è ancora speranza e voglia di vivere; nelle altre gli anni hanno
segnato profondamente il volto con solchi d’aratro, hanno tolto luce agli occhi
che si stringono, si difendono, a volte c’è un vuoto, a volte un’emozione
indefinibile, quale sarà il film che scorre in quel momento nella loro mente,
fotogrammi di una vita durissima, fatta di dolore e di precarietà, di ferro e
di fuoco, di soprusi e di violenze, di sottomissione e di privazione.
Click.
Le braccia sorreggono il corpo dei loro
bambini, il gesto naturale delle mamme di tutto il mondo, ma non sempre lo
circondano per proteggerlo, forse sanno che è inutile, o forse sanno di non
esserne capaci: il mondo è troppo forte per loro. I bambini hanno forme
rotonde, come tutti i cuccioli, ma la pancia troppo gonfia dice molte cose
sulla malnutrizione. Qualche bambino siede solo e nudo sul terreno polveroso e
sporco, non lontano dalla spazzatura e si succhia le dita, altri corrono e si
rotolano per terra, giocano senza giocattoli, gridano, ridono, come tutti i
bambini del mondo. L’occhio della comunità li segue, senza preoccuparsi troppo.
Le madri con occhi smarriti si chiedono cosa metteranno in pentola per i loro
figli, dove troveranno di che sfamarli.
Click.
una donna tagliatrice di canna da zucchero |
Le
foto che ho scattato alle donne e ai bambini sono sul desktop illuminato:
quelle facce nere mi guardano e io guardo le loro espressioni, le forme e i
colori, gli sfondi con le baracche, le casette e i muri scrostati. Dov’è la
rigogliosa natura caraibica dei nostri sogni di europei? Solo in una foto
compare un gigantesco fiore di banana che grava sulla testa di Helena, come una
lancia, come una spada di Damocle: inconsciamente ho escluso la natura in
queste foto, ma ho trovato questo simbolo forte della sua vita e di quella di
altre che mi hanno raccontato la loro storia. Sento ancora le loro voci, chiare
o rauche, sempre pacate, sussurrate, dai toni molto bassi, nella loro lingua un
po’ strana che suona come un fattore di ulteriore diversità dal contesto
sociale dove la sorte le ha scaraventate...
una maestra |
Essere
donne è difficile, sempre, ma ci sono luoghi nel mondo dove è sempre guerra,
anche senza spari e bombe. Qui, in un paese della grande America, si perpetua
una realtà che noi europei pensiamo finita per sempre o possibile solo in
alcuni luoghi lontani dell’Africa o dell’India profonda: lo schiavismo esiste
ancora, incatena senza catene esseri umani, violenta i loro diritti prendendosi
gioco delle leggi internazionali, firmate a tavolino lontano dai luoghi dove si
consuma e si corrode la vita reale sull’altare del denaro.
Donne
più che vulnerabili ed esposte in una società maschilista e retriva, che castra
lo sviluppo personale, a volte anche mentale, nega autonomia per la cronica
mancanza di lavoro, condanna le donne alla dipendenza e alla sottomissione a un
uomo. Adolescenti già incinte, partoriscono figli troppo spesso abbandonati,
subiscono violenze, vedono nella prostituzione una delle poche soluzioni per
garantirsi un pasto al giorno.
La
fame, oscena.
Se in
Europa si parla di pari opportunità, di diritti, di libertà, ci sono paesi in
cui la speranza è solo un filo di luce che s’intravede in una oscurità che
sembra non poter mai essere squarciata, ci si può aggrappare a quel filo immateriale ed essere sempre a terra.
Eppure
si può sorridere ancora, nonostante tutto.
pag 176
Storie di donne dei bateyes
Il
terremoto ha sterminato la sua famiglia e così è fuggita dall’inferno e
dall’atroce miseria di Haiti con una figlia di pochi mesi tra le braccia. Loucette ha un corpo e un viso da
adolescente con i suoi 38 anni, ma nella sua vita ha passato dolori e traumi
che schianterebbero chiunque. Eppure è tranquilla, sorridente, gentile, parla
piano e si muove con grazia sgusciando tra la gente, quasi volesse rendersi
invisibile.
“Sono viva, non sono malata, riesco a
fare qualche lavoretto e comprare da mangiare per me e mia figlia. Sono felice.
Certo, quando lavoravo negli hotel ero più contenta, ma con la legge sulle
migrazioni mi hanno licenziata perché non avevo i documenti in regola. Non ho
più potuto lavorare, se non saltuariamente, ma ora ho trovato due signore
italiane da cui vado per fare le pulizie, dicono che sono brava e mi vogliono
bene: mi danno sempre qualcosa da mangiare, mi pagano. Avevo un uomo, ma mi ha
abbandonato quando ero incinta: ho partorito nel batey perché non potevo andare
in ospedale senza documenti, ho avuto tanta febbre e il bambino è morto subito
dopo. Sono viva per miracolo, ancora una volta, dopo il terremoto”.
Elisee è una
donna giovane, ha un bel viso, dove tutto è rotondo, e un sorriso mite che si
apre sui denti bianchi.
la casetta di Elisee |
“Dieci anni fa sono venuta via da
Haiti, avevo diciotto anni, e lasciavo il mio bambino di due anni alla nonna,
non potevo portarlo con me alla ricerca di una nuova vita. A Barahona ho
incontrato mio marito e abbiamo avuto due figli, ma il lavoro precario ci ha spinti
a migrare di nuovo a San Pedro de Macorìs. Ora viviamo in un batey, in una
baracca di legno che ho dipinto di rosa, per distinguerla da tutte le altre,
azzurre e verdi, ed è nato un altro figlio: ora ho due maschi di sette e cinque
anni e una bambina di sei mesi e il nostro sogno più grande è avere una casa
migliore, vorremmo risparmiare per questo, ma il lavoro manca. Io non ho
neppure i soldi per dar da mangiare ai miei figli, per fortuna i due grandi
vanno a scuola e hanno il pranzo e la merenda assicurati, ma la piccola piange,
non so che fare. Noi grandi possiamo soffrire la fame, ma i bambini no, non è
giusto, loro non capiscono perché. E poi
sono ammalati, i due grandi di asma, la piccola ha sempre la tosse e il
raffreddore, mi mancano i soldi anche per le medicine. Mio marito non lavora
più nei campi di canna, io vorrei cucinare e vendere cibo cotto ai lavoratori
ma è tutto così difficile... devo lottare per i miei figli, per la loro fame di
oggi e il loro futuro domani, la loro vita deve migliorare. Spero di riuscire a
ottenere presto le carte d’identità: con quelle sento che tutto potrà cambiare”.
Helena |
Helena mi
racconta una storia inquietante come la religione vudù che gli haitiani
praticano da sempre, da quando sono sbarcati a Hispaniola strappati dalla Madre
Africa.
“Un cane rosso come il diavolo, con i
denti sanguinanti, mi rincorreva nel sogno per divorarmi, pensavo di morire,
sempre, tutte le notti. Baron Samedi, il loa dei cimiteri, era pronto a
strapparmi dalla terra per buttarmi nel regno dei morti: nemmeno Erzuli, la loa
che invocavo, madre, spirito delle acque profonde, dell’amore e dei sogni
riusciva a salvarmi. Ho cercato invano un rifugio, poi ho incontrato un pastore
evangelico, lui mi ha spiegato che potevo credere nella salvezza e ho trovato
un Dio che ha scacciato il demonio. Sono tranquilla ora, ma devo lavorare
duramente, per fortuna mio marito sta con me e mi aiuta, abbiamo undici figli:
quelli più grandi non hanno un lavoro stabile, uno solo taglia la canna nella
stagione del raccolto, sei sono ancora piccoli e dobbiamo sfamarli. Prego Dio
che mio marito rimanga con me”.
“Mi chiamo Cecilia ho ventisette anni e
non ho un cognome, né sono registrata all’anagrafe. Il mio papà venne da Haiti
quando era piccolo, lavorava, ma quando avevo solo tre mesi morì, quindici
giorni dopo che era morta anche la mamma. Sono cresciuta con la zia e non mi è
mai mancato nulla. Quando il marito di mia zia si separò non potei più usare il
suo cognome e neppure quello di mio padre, non sapevo neppure come si chiamava
perché non ha mai avuto documenti.
Compiuti sette anni, la zia, che doveva
lavorare, mi lasciò in un batey con una conoscente, ma poi tornò a prendermi e
mi portò con sé a La Romana, dove finii la scuola fino all’ottava classe. Mi
hanno detto che mio padre ha avuto un’altra figlia, ma non so dove si trovano e
anch’io ora vivo sola, con mia figlia di quasi due anni...suo padre non sa che
è nata, è emigrato in Cile.
Mi sento perduta: non ho documenti, non
posso registrare mia figlia all’anagrafe, non so neppure dove sono sepolti i
miei genitori che non avevano documenti, così come non ha documenti neppure mia
zia. Siamo tutti clandestini, irregolari, anche se da due generazioni viviamo e
lavoriamo in Repubblica Dominicana. E’ una situazione terribile. Sto facendo di
tutto per migliorare la mia vita, ma senza documenti posso solo fare lavori
saltuari, curo bambini, faccio pulizie, cucino: ho fatto un corso per estetista
e per elettricista, voglio imparare altre cose per poter lavorare, ma se non mi
danno i documenti non posso aver un impiego fisso e rischio di essere deportata
ad Haiti, una terra che non ho mai visto. La mia vita è così difficile...”
Phelicia |
Phelicia è una
giovane di ventiquattro anni che a soli quindici anni aveva già partorito due
figli, lasciati ad Haiti con la nonna per migrare oltre il confine
dominicano. “Io so solo che voglio cambiare vita, entro tre anni sarò a Miami”.
Non sa come potrà realizzare il suo irrealizzabile sogno: non ha carta
d’identità, è analfabeta, parla solo creolo, neppure lo spagnolo o l’inglese,
non ha soldi né riesce a lavorare, ora ha un altro figlio di sette mesi da un
marito da cui è completamente dipendente. E’ incapace di un progetto
realistico, ma il suo sogno la aiuta a campare.
Quinta
di cinque figli che sono cresciuti sparsi in varie famiglie, Lala fu cresciuta da sua nonna, senza
poter andare a scuola per mancanza di carta d’identità, pulendo case e
lavorando in campagna.
“Sono madre di sette figli, due sono
stati dichiarati figli di mia sorella, ma gli altri non hanno documenti. Così
non ho potuto iscriverli a scuola. Sono molto triste perché non voglio che
abbiano tanti problemi come quelli che ho avuto io nella vita. Ora una delle
mie figlie è incinta e non potrà dichiarare il bambino all’anagrafe. E’ dal
2012 che ho cominciato a chiedere i documenti, ma la mia richiesta venne persa,
e nonostante continuassi a chiedere notizie, nessuno sapeva dirmi nulla: chiesi
aiuto all’associazione che mi ha aiutato, però sto ancora aspettando la
risposta del Ministero e sono passati sei mesi.
Non ho niente che mi identifichi come persona, non sono niente, non
esisto: e il lavoro è sempre precario, la legge dice che non posso lavorare
senza documenti. Finirà mai questa situazione?”.
una donna e un tagliatore di canna di 75 anni nella mia classe per analfabeti |
"Viaggi di nuvole e terra, taccuini tra
realtà e fantasia"
autore: Tiziana Viganò
genere: libro di viaggi
2018 Macchione editore
pagg. 221 con 85 illustrazioni a colori
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