Viaggio verso l’ignoto
Il
lunghissimo viaggio verso questa meta è una metafora di come ci si debba
avvicinare a una realtà così forte e brutale per i nostri occhi di occidentali,
troppo abituati a considerare i problemi della sofferenza e della morte come
qualcosa da rimuovere velocemente dalla coscienza.
La
lentezza, se vissuta senza l'insofferenza che ci è abituale, permette di
riflettere e di adeguarci, di giorno in giorno, di tappa in tappa, di ora in
ora, a una realtà che va “digerita” a piccoli bocconi, masticati ed elaborati
uno alla volta.
L’atterraggio
a Nairobi è una sorpresa: i dintorni verdi e ben coltivati, una metropoli
modernissima con grattacieli e parchi di vegetazione tropicale, ma con slums
ben visibili
dall’aereo.
La
città, su un altopiano di millesettecento metri di altitudine, con una
circolazione automobilistica incredibile (sicuramente il “passo d’uomo” è più
veloce!) e un inquinamento record, è molto simile alle città occidentali, ma
con qualcosa di particolare che mi colpisce, un’energia, una tensione verso il
futuro e un fascino che faccio fatica a definire.
Dagli
alberi che ornano i viali e i bellissimi parchi, miriadi di uccelli – tra cui
tanti marabù, grigi, enormi – stanno a guardare dall’alto l’umanità che passa a
piedi o bloccata nelle lamiere roventi delle auto. Qua e là s’intravedono
vicoli con baracche vicino a centri commerciali eleganti, belle architetture
vicino a luoghi sgretolati: una città enorme, piena dei contrasti che nel mio immaginario
sono la vera rappresentazione di una metropoli, ovunque nel mondo, nel suo
bello e bellissimo, brutto e bruttissimo, ricco o misero.
Da
Nairobi il piccolo aereo di una compagnia privata porta i passeggeri verso il
confine con il Sud Sudan, a Lokichoggio, attraversando verdi altopiani solcati
da fiumi in secca e montagne con creste e speroni rocciosi. Spettacolare sul
suolo il disegno a onde di alteterre nella faglia della Rift Valley, che
scendono digradando verso il lago Baringo, con al centro un’isola rotonda e il
Bogoria: poco prima dell'atterraggio comincia la savana col suo colore uniforme
a perdita d’occhio.
Lokichoggio
è un posto creato dal nulla, a trenta chilometri dal confine col Sudan, come
base ONU durante la guerra: ora serve ancora per le organizzazioni umanitarie
che dal mondo sono arrivate a soccorrere le popolazioni sudanesi. Molte hanno
un ufficio permanente, magazzini, linee aeree; da qui partono i voli e le
truppe delle Nazioni Unite. Più a sud c’è il campo rifugiati di Kakuma, uno dei
più grandi di questa zona, che accoglie migliaia di persone provenienti da
Sudan, Congo, Somalia, Etiopia.
Loki è
una grande baraccopoli con botteghe di lamiera ondulata, plastica e materiali
di recupero, dove si vende di tutto, in mezzo alla spazzatura, che rimane sul
posto.
Anche
qui mi colpiscono i voli degli uccelli: all'aeroporto, tra le innumerevoli
carcasse di piccoli aerei, tanti e tanti corvi fanno rabbrividire; invece
altrove, nel confortevole lodge dove sostiamo, ci sono mille tortore con
una macchia rossa sull'occhio ed elegantissime egrette bianche.
Con
un'altra tappa si arriva a Juba, la capitale del Sud Sudan, sdraiata lungo il
corso del Nilo Bianco: vuole vantare un aspetto da città, ma nel suo schema
ortogonale, con numerose aree verdi, si vede un alternarsi di tukul,
tipiche capanne a pianta circolare con l’alto tetto conico, casette bianche col
tetto di lamiera ondulata verniciata di rosso e qualche edificio in muratura.
Atterriamo
di nuovo sulla pista in terra battuta di Rumbek, con gli immancabili rottami
degli aerei schiantati e ripartiamo subito per un’altra tappa. Pochi minuti
dopo appare un largo fiume costeggiato da grandi paludi. Il suolo qui è
pianeggiante: l'acqua scorre lentamente perché si scava il letto senza la forza
della pendenza e cambia spesso il suo corso trovando nuove vie. I meandri
vecchi e nuovi disegnano curve continue sul suolo, come nastri srotolati in un
quadro astratto, dove predominano diverse tonalità di verde chiaro e di
verdazzurro, alternati ai rossi e ai bruciati della terra e al color ocra
gialla dell'acqua limacciosa.
Il Sud
Sudan è il territorio della “grande palude”, che gli antichi egizi conoscevano
come il posto dove il suolo, inondato d’acqua senza limite, decretava la fine
del mondo: le esondazioni dei numerosi fiumi lasciano il loro limo sul terreno,
ma la superficie è immensa, difficilmente coltivabile e difficilmente
raggiungibile, tanto che gli arabi l’hanno chiamata “grande barriera”, Sudd.
Per
venti minuti l'aereo sorvola la savana completamente vuota, solo le nubi
bianche e filanti creano ombre in movimento sul terreno: poi cominciano ad
apparire minuscoli insediamenti, dapprima molto lontani fra loro, uniti da
sottilissime piste battute dal cammino degli uomini. Più avanti piccole aree a
forma quadrata o rotonda, unite tra loro da un reticolo fitto di sentieri, e
poi ancora una lunga linea retta, di terra rossa battuta, come un'autostrada
primitiva apparsa nel nulla.
L'aereo
si ferma ancora a Wau, una città discretamente estesa, anche questa con schema
ortogonale: in mezzo ai tukul e alle casette si vedono campi da calcio.
Le costruzioni e una grande area a magazzini, il compound delle Nazioni Unite, terminano sulla riva del fiume Jur,
attraversato da un ponte. Da lì la lunga strada rossa si apre a V e sembra perdersi
nell’infinito.
Sulla
pista di quello che, con un po’ di fantasia, sembra un aeroporto, saliamo su un
Cessna a dieci posti, con l'ala sopra la fusoliera.
Fuori
città si vedono molti insediamenti vuoti e zone di savana con resti di incendi.
Durante la stagione umida i pastori seminomadi costruiscono il loro
insediamento, lo abbandonano all'arrivo della stagione secca per spostare le
mandrie altrove, e incendiano le sterpaglie: una tecnica antichissima, che però
impoverisce il suolo e accelera la desertificazione.
Il
paesaggio non cambia da Wau ad Agok, ultima meta del viaggio in aereo, tranne
qualche magra coltivazione di sorgo con rese infime.
Si
vedono molti campi di rifugiati, qui. I combattimenti di maggio sono stati
vicini e i disperati in fuga si sono trasferiti in questa città. Le loro
capanne si distinguono nettamente dalle altre di chi è stanziale, per la loro
precarietà: gli sfollati, dispersi e sradicati dalla loro terra, dalla loro
società, dalle loro tradizioni, non hanno più niente, niente da mangiare,
niente di niente, spesso neppure la pentola in cui far cuocere un po' di
polenta.
Scesi
all'aeroporto di Agok, la solita pista sconnessa di terra battuta, saliamo sul
pulmino guidato da Padre A., il sacerdote ugandese della Missione e cominciamo
il lunghissimo viaggio di quaranta chilometri per arrivare alla nostra meta.
Impiegheremo circa tre ore, sull’infinita pista di terra battuta che dall’aereo
si vedeva tagliare in linea retta la savana. Costruita dai cinesi e terminata
nel 2007, collega questa zona con el-Obeid e Khartoum, centinaia di chilometri
a Nord. Le inondazioni dei mesi scorsi, durante la stagione delle piogge,
l'hanno ridotta a un percorso da rally: innumerevoli veicoli, compresi i
carri armati, hanno lasciato profonde buche, in alcuni tratti la strada è
franata e costringe a percorsi alternativi, ogni giro di ruota è un salto o uno
scossone.
La
scarsa velocità permette di osservare il paesaggio che scorre fuori dal
finestrino. Capanne sparse o vicine l'una all'altra, molte sommerse, così gli
abitanti hanno dovuto trasferirsi nel centro vicino, acquitrini dove la gente
pesca con qualunque mezzo, perfino con le zanzariere rosa che erano state
distribuite dalle organizzazioni per uno scopo ben diverso...
Nelle
paludi splendide cicogne e gru coronate, egrette bianche e aironi grigi, ibis, uccelli
sacri nell’antico Egitto; mucche, pecore e capre dovunque sembrano le
autentiche padrone del territorio.
Sulla
strada arrancano scassatissimi camion che ondeggiano pericolanti, con un carico
umano inverosimile nel cassone posteriore, oppure pullman stipati di gente, con
una montagna di bagagli sul tetto: un fenomeno di equilibrio.
Impressionante
il numero di persone in marcia: camminano e camminano anche a piedi nudi, sono
di tutte le età, uomini donne bambini, atletici e instancabili, quasi tutti con
un carico da portare in bilico sulla testa.
Alla
fine la nostra strada termina in una spianata enorme, dove il vento fa
vorticare la sabbia chiara e il sole a picco offusca la visione: siamo arrivati
nella “Main Street”.
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