Biblioteca di Rescaldina, 3 luglio 2016 - per "Il vizio di scrivere" Ada Terrile ha scritto un racconto ricco di emozione
Era una giornata afosa e a fatica Gianna
saliva quelle scalinate di pietra. Sotto il sandalo sentiva il calore che
emanava il gradino. Era infastidita e si sentiva stanca. Voleva riposare,
fermarsi, sostare senza salire ancora. La guida sollecitava il gruppo ad
affrettarsi perchè la giornata si stava rilevando più impegnativa del previsto.
Erano partiti presto dall'albergo, ma nel tragitto avevano incontrato diverse
difficoltà, compreso il passaggio di una mandria di bovini su una strada
polverosa. Già in quella occasione Gianna si era chiesta se era stata una buona
idea prenotarsi per quella escursione. La polvere era entrata dai finestrini
aperti e le si era appiccicata sul viso e sulle braccia rendendola inquieta.
Adesso ferma su quel gradino infuocato a riprendere fiato, si domandava ancora
una volta che cosa l'avesse spinta in quel luogo. "Perché mi trovo in
questa situazione? Perché sono arrivata fin qui?", Non aveva voglia delle
solite vacanze al mare o in montagna.
Quell'anno voleva viaggiare, conoscere
nuove realtà: aveva tempo e disponibilità economica. Aveva da pochi mesi
terminato la sua vita lavorativa. Finalmente era in pensione! Significava
essere libera. Nei primi giorni era euforica, s'alzava la mattina e non le
sembrava vero di non dover più correre
dalla camera da letto al bagno, alla cucina per non arrivare in ritardo al
lavoro. Poteva sostare tra le lenzuola e sentire il tepore del suo corpo, perdersi
a osservare il sole che filtrava tra le tapparelle. Poteva indugiare davanti
allo specchio ad osservare il suo viso e le sue espressioni. Poteva far
colazione con calma assaporando il gusto del tè al gelsomino e la crosta di
mele. Adesso voleva modellare la sua vita in modo diverso "Sono libera di
fare quello che voglio!" si diceva. Era una sensazione grandiosa, quasi da
far paura. Cadevano gli steccati della giornata-tipo e lei veleggiava tra mille
pensieri e mille propositi. Di una cosa era certa, voleva viaggiare, realizzare
un suo sogno antico, visitare l'Africa. Non aveva impegni famigliari, i suoi
figli erano ormai cresciuti, avevano casa e vita propria e alle spalle un
matrimonio concluso.
Iniziò a girare per le agenzie di
viaggio, a raccogliere cataloghi che ammucchiava sulla sua scrivania, L'Africa
era un continente esteso e da quegli spazi era partita l'avventura umana, così
raccontavano gli archeologi. Proprio lì voleva andare a quell'inizio a quella
terra. Non c'erano motivazioni logiche se non un impulso sotterraneo che partiva
dal suo essere più profondo. Trascorsero alcune settimane poi si decise.
Prenotati i biglietti aereo, preparata la valigia s'imbarcò in quella avventura
spinta dalla molta curiosità e alcuni timori. Si mosse per raggiungere il
gruppo che vociava e sbuffava nella salita. Finalmente si era arrivati alla
meta: un grande monumento di pietra. Un tempio, stava spiegando la guida, una
ragazza vivace, con occhi di fuoco e sorriso luminoso, che sapeva intrattenere
piacevolmente il gruppo formato da persone di diverse nazionalità. Gianna tornò
a respirare e a guardarsi intorno. Notò sul lato destro del muro una porta semi
aperta e spinta dalla sua indomabile curiosità, non potè fare a meno di
entrare. L'interno era buio e a fatica i suoi occhi si abituarono a vedere in
quell'oscurità, mentre odori pungenti di spezie e di erbe le arrivavano al
naso. Al centro della stanza sedeva una donna senza età fasciata in un vestito
dai colori dell'arcobaleno. Provò disagio a quella presenza silenziosa, e
rimase affascinata dai grandi occhi scuri, come carboni accessi, che la
fissavano con insistenza. La sconosciuta sorrise e a Gianna parve di
sciogliersi in quello sguardo, in quel sorriso."Tutta colpa del
caldo" si giustificò. Provò una sensazione forte che le fece quasi tremare le gambe, mentre il pensiero
razionale la riportava sulla difensiva, Sospirò e pensò di uscire da
quell'anfratto buio e misterioso, di correre a raggiungere il gruppo, la guida,
che non si erano forse neppure accorti della sua assenza. Si girò verso la porta,
scorgeva la luce fuori sempre più intensa ma i suoi piedi non ubbidirono,
restando incollati al pavimento di terra battuta, come poco prima sul gradino
rovente, sordi agli impulsi che la mente inviava per farla spostare da quel
luogo. Intanto la donna s'alzò e sempre sorridendo con un gesto del braccio le
indicò qualcosa. Gianna a fatica seguì le sue indicazioni e si mosse in
direzione della parete. Sul muro non intonacato e con pietre a vista,
posizionate da una sapienza antica, erano appese delle maschere.
Si fermò ad osservarle mentre la donna
le si avvicinò silenziosa. Sorpresa, se la trovò accanto, sentì l'odore
pungente della sua pelle e la stoffa del vestito quasi le sfiorò il braccio.
Provò un brivido e il desiderio di scappare, ma non si mosse. Gli occhi di
Gianna si erano abituati all'oscurità e nella penombra riuscirono a intravedere
il volto della donna. "E' bellissima" pensò" come vive in un
posto così isolato?". Guardò l'acconciatura dei capelli, osservò il suo
portamento fiero, il suo sguardo fiero che aveva già incontrato, stupita, in
altre donne africane. Solo in quei volti femminili aveva visto questa fierezza
di esistere e di vivere. Nulla di simile nei volti di donne europee o asiatiche
o sudamericane. Un pensiero fugace le attraversò la mente. "Chissà se Lucy
aveva questo sguardo fiero?" Lucy era la nostra più antica antenata trovata
durante gli scavi nel secolo scorso.
Non riuscì a formulare risposta perchè
la donna la distrasse con la mano, voleva farle vedere qualcosa.
Parlavano lingue sconosciute e la loro
comunicazione non poteva che avvenire con i potenti gesti del corpo. Gianna
acconsentì col capo e concentrò l'attenzione sulle maschere che le aveva
indicato la donna. Un fascio di luce illuminava gli oggetti appesi. Forse era stato
aperto uno spiraglio di finestra. Erano volti fatti in legno o terracotta, Si
soffermò sui dettagli: le bocche grandi, aperte, socchiuse, chiuse; gli occhi
spalancati, aperti, socchiusi, chiusi. Più osservava e più le sembrava che le maschere prendessero
vita interagendo con lei. Passò a guardare gli orecchini appesi a lunghe
orecchie, i colli ornati di collari, le strane acconciature sul capo. Ognuna
era diversa, strana, incomprensibile.
"Che strano linguaggio" si
sorprese a pensare " sembrano animate e che vogliano trasmettere
qualcosa".
La donna , sempre al suo fianco, iniziò
a parlare una lingua incomprensibile. "Che vorrà dirmi?"
Capì che la invitava a scegliere ma
Gianna si schernì, negò col capo mentre istintivamente disse nella propria
lingua" Sono tutte belle, non so, non ho portato tanti soldi con me"
Pensava che la donna fosse in quel luogo per vendere le maschere ai turisti
anche se nessuna insegna era appesa alla porta e nessuna persona, eccetto lei,
aveva varcato finora la soglia di quella stanza. Ma la donna insisteva e
intanto si avvicinava a una maschera invitando, a gesti, Gianna ad osservarla.
Lei ubbidì e con suo grande stupore s'accorse di intravedere una certa
somiglianza con se stessa. "Ma non è possibile!" esclamò. Quasi che
la donna avesse capito, annuì con capo ridendo e lanciando in aria le mani in
segno d'allegria. Si guardarono e la mimica facciale che apparve sui loro volti
le sorprese e le avvicinò sul filo delle emozioni. La donna staccò dal muro la
maschera e la mise nella mani di Gianna. Le loro mani si sfiorarono e vibrarono
insieme. Un'onda di calore fortissimo attraverso il suo corpo. Le spuntarono le
lacrime agli occhi ma non riusciva a capire perché. Spostava lo sguardo dalla
maschera a sua immagine e somiglianza alla donna sconosciuta . L'abbraccio
partì da solo. Si rifugiò tra le sue braccia, singhiozzando sempre più forte,
in un pianto inarrestabile. Tutte quelle lacrime che scendevano copiose
lavavano i dolori, le ferite del passato, le difficoltà di tutta la sua vita. Quelle
braccia erano le braccia di tutte le donne che l'avevano accudita, accolta ,
quelle di sua nonna, di sua madre, di sua sorella, delle sue amiche. Le braccia
che avvolgono sorreggono, sostengono, curano: braccia di donna, di tutte le
donne , le migliaia di generazioni precedenti. "Ecco perché sono arrivata
qui! Ecco perché dovevo venire in Africa dove sono partite le nostre
origini". I singhiozzi lentamente si fermarono, si guardarono a pochi centimetri
di distanza ancora incapaci di sciogliere il loro
abbraccio. Un pensiero di consapevolezza l'attraversò tutta in quella stanza
sperduta nella savana " C'è la nostra fierezza di donne da raccogliere in
questo luogo che le donne africane non hanno perso, C'è la nostra fierezza di
donne da coltivare e da portare nel tragitto della vita e nel viaggio nel
mondo". L'abbraccio si sciolse e una nuova luminosità le avvolgeva
entrambe mentre si salutarono come vecchie amiche. La donna le donò la maschera
che Gianna raccolse sul cuore. Un attimo ancora, infinito, per sancire un
legame profondo, poi Gianna raggiunse l'uscita e si mise alla ricerca del suo
gruppo.
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