"Notte stellata": dipinto (1889) di Vincent Van Gogh. NewYork, Museum of Modern Art |
“E quando miro in cielo arder le stelle,
dico tra me pensando:
a che tante facelle?”
(G.Leopardi)
Le grandi opere di
Giacomo Leopardi
Questa è la domanda che si instilla nel pensiero di Giacomo
Leopardi nell'osservare le “piccole luci abbaglianti” che si trovano in cielo
nella notte. Domanda che ha un'implicanza filosofica nell'esistenzialismo
pessimistico del poeta di Recanati, oltre che trovare la propria forma poetica
nella composizione Canto notturno di un
pastore errante dell'Asia. Leopardi scrive questo canto in piena fase del
suo pessimismo cosmico, quello in cui è convinto che la felicità sia una
componente naturale verso la quale l'uomo non può non tendere, ma al contempo è
convinto che la Natura (figura onnipresente come progenitrice di tutti noi) non
abbia dotato gli essere umani dei mezzi per arridere alla Felicità, gettandoli
in balia di dolorosi accidenti, di malattie, del tedio, da cui l'uomo non potrà
mai liberarsi.
Tutt'al più è concesso rifuggirvi e ottenere uno stato di
quiete che si definisce non mediante una sua accezione diretta, ma in virtù
dell'assenza del suo opposto: il dolore.
Il poeta per tutto il canto ragiona dello stato dei
“mortali”, sia uomini sia animali, rapportandosi di continuo alla Natura
(definita ne La Ginestra “Madre di parto e di voler matrigna”), al cielo, alle
stelle, che osserva nel loro brillare, e alla sua “familiare” Luna che vede
esser “silenziosa”, distaccata nel percorrere il suo sempiterno cammino intorno
alla Terra senza curarsi del destino di dolore in cui incorrono tutti gli
essere viventi; e, ponendosi delle domande, per l'intero canto si rivolge in continuazione
direttamente a Essa e si convince che alla Luna “del suo dir poco cale”. Il
contatto diretto del pastore errante con ciò che lo circonda, e in modo
particolare con la Luna e il cielo, lo portano a porsi delle domande che
inevitabilmente non trovano risposta, che non riescono a cogliere il senso di
tutto e nemmeno a intuirne alcuno. E in questo rapporto di paragone che
s'instaura con il cielo delle stelle fisse, il pastore (quindi Leopardi) coglie
il distacco tra “la sorte delle umane genti” (così come si legge in A Silvia) e
quella impassibile dello spazio infinito che le sovrasta. Il canto finirà con
una considerazione amara ma che il Leopardi crede sia un dovere “umano” non
nascondere a se stessi: “E' funesto a chi nasce il dì natale”.
In realtà, il grande
poeta riesce a rendere nella forma eterna dei versi di questo canto delle
domande, dei sentori, dei pensieri che sgorgano in maniera spontanea non appena
ci si interfaccia con scenari mozzafiato, con luoghi che si estendono a perdita
d'occhio, quando ci si raffronta con l'immensità di ciò che ci circonda, dagli
eventi più straordinari della natura, al cielo buio, enorme, che lascia
presagire un'infinità che molto probabilmente, in realtà, non esiste. La cosa
davvero “spettacolare” è la percezione di avere a che fare con qualcosa di
“sovrannaturale”, del tutto distaccato da ciò che è terreno: l'infinito, della
cui esistenza non si ha prova alcuna, esistente semplicemente in funzione del
finito: di questo si ha una definizione poggiata su basi reali e concrete. E
già che, per una questione di logica e di lingua, nel momento in cui si
definisce una cosa in automatico viene definito anche l'opposto della stessa,
allora si è giunti a creare con la mente l'infinito. Ma, tornando al nostro
discorso, è proprio la percezione di questa “infinità” che l'uomo vede
concretizzata nelle grandiosità della natura, così come nei recessi del cielo
buio, a indurre la mente a vagolare e perdersi nei meandri del passato più
doloroso, del futuro più immaginifico, delle verità più sfumate che hanno a che
fare con il “sé” e anche, spesso, a compiere salti interpretativi e giungere
alla prove dell'esistenza di un'entità superiore che governa il macro e il
microcosmo.
Punto in comune a
tutto ciò è il fatto che di fronte all'immenso l'Uomo pensa, riflette, si perde
di vista.
E questo tipo di contatto è tuttora sempre voluto e
ricercato, fosse anche solo nella sterminata distesa di un mare che si perde
oltre l'orizzonte. Nel caso di Leopardi, appunto, la ricerca del metafisico
avviene sempre nella dimensione del cielo notturno, della volta celeste, della
Luna o delle stelle dell'Orsa (Le Ricordanze). Perché Leopardi è un uomo che si
forma nella biblioteca creata dal padre nella sua casa natale e lì il bambino
affronta lo studio di tutte le materie, da quelle umanistiche a quelle
scientifiche; a soli 15 anni scrive già Storia dell'astronomia. Dunque lui,
uomo dell'800, ha un rapporto molto stretto con le scienze astronomiche e
questo si evince in diversi punti della sua produzione letteraria. Ma, in
realtà, l'accento che il poeta sembra porre su questa scienza non è altro che
una semplice “devozione” nei confronti di un campo della conoscenza che faceva
parte della vita culturale dell'epoca, non solo nell'ambito strettamente
scientifico, ma anche artistico e umanistico.
L'astronomia è
definita come la scienza più antica di tutte, per il semplice motivo che nel
momento in cui la luce del sole si estingueva al di sotto della linea
dell'orizzonte, all'uomo primitivo non restava altro che un'immensità di stelle
disseminate nel buio. E l'osservazione delle stelle, attenta, solerte,
reiterata, ha portato l'uomo a usare la propria fantasia per collegarle e
raggrupparle per vedere proiettate in cielo le figure che riteneva più
importanti, da un punto di vista sia simbolico che pratico.
E' stato così che con il passare dei secoli, il cielo è
stato suddiviso in 88 regioni che sono le costellazioni e il cammino apparente
che il sole descrive intorno alla Terra (l'eclittica) è stato lastricato con
figure e storie appartenenti all'Epos.
Lo Zodiaco, che fa da
sfondo al Sole in cielo
Così si ha che l'Ariete è quello il cui vello d'oro è stato
l'obiettivo del viaggio di Giasone e gli Argonauti; il Toro è l'animale in cui
Zeus si tramutò per conquistare la principessa fenicia Europa; i Gemelli sono i
diòscuri (ossia figli di Zeus) Castore e Polluce... e così via in una serie di
rimandi mitologici che hanno una forte importanza anche del tutto pratica. Sì,
perché i nostri antenati si misero a guardare il cielo e iniziarono a costruirvi
una mappa che fosse utile per “muoversi”
sia nel loro lavoro in terra che per mare. E così la Vergine tiene in mano una
spiga, perché, essendo visibile in tutti i mesi primaverili, rendesse
riconoscibile il periodo dell'anno giusto per le coltivazioni di frumento. Allo
stesso modo, la costellazione del Gran
Carro è parte di una ben più grande, quella dell'Orsa Maggiore, ed è stata da sempre molto importante in quanto le stelle
posteriori del carro sono chiamate “puntatrici”, perché immaginando la linea
che congiunge quella più in basso a quella più a nord e prolungando la linea
ottenuta per cinque volte, ci si imbatte direttamente nella Stella Polare,
importante punto di riferimento per la navigazione.
La linea immaginaria
che congiunge Merach, Dubhe e Polaris. Non a caso, il nome delle stelle che la compongono, come
spesso accade in astronomia, è arabo, perché i primi grandi navigatori e
astronomi della storia furono i
Babilonesi, i quali iniziarono a studiare le stelle, come la Stella Polare
appunto, per avere dei punti di riferimento nella navigazione notturna.
Poi, è ovvio, ogni popolazione poteva “vedere” in cielo la
rappresentazione degli oggetti che riteneva più significativi: ad esempio
l'asterisma (nome con cui in astronomia ci si riferisce a un gruppo di stelle
visibili a occhio nudo) che noi chiamiamo Orsa Maggiore, per gli antichi Egizi
era un ippopotamo!
E' poi molto interessante notare come parecchi aspetti
linguistici attuali siano connessi al mondo dell'astronomia; e si sa quanto i
modi di dire e il modo di esprimersi siano particolarmente sintomatici delle
origini della cultura di un popolo. Ad esempio, sempre in merito al nostro
“prezioso” Gran Carro, i Greci vedevano nelle sette stelle che lo compongono un
semplice aratro, mentre i Latini erano capaci di disegnarvi mentalmente un
carro trainato da sette buoi.
Il Grande Carro
In latino le due parole sono septem e triones... da cui la
parola settentrione, sostantivo che si riferisce al nord geografico così come
la presenza di quel gruppo di stelle indica il nord celeste. Allo stesso modo, la parola desiderio è composta dalla
particella de- (da) e la parola -sidera (stella); nel suo insieme dunque
associa l'idea dell'anelito a quella della lontananza dalle stelle che
diventano simbolo dell'oggetto agognato e irraggiungibile, quindi ciò verso cui
nasce il sentimento della bramosia. E' per questo che quando s'intercetta con
lo sguardo una stella cadente bisogna esprimere un desiderio: in quel momento
ciò che si desidera accorcia le proprie distanze da noi. Ovviamente le interpretazioni sono
diverse… ne esiste anche un'altra secondo la quale il desiderio delle cose è creduto essere un influsso
trascendente, proveniente dalle stelle: gli esseri umani obbediscono sia ai
bisogni di ordine pratico, sia ai loro desideri, cioè a motivi indotti dalle
stelle... cioè nient'altro che quello a cui si vuol credere quando si legge un
oroscopo!
In ogni caso, al di là dell'interpretazione, restano due
punti fermi, del tutto attuali: il fatto che ogni aspetto della cultura umana
sia intessuto dell'osservazione degli astri e la triste evidenza che ormai il
mondo delle stelle entra a far parte del “nostro” solo sotto forma di oroscopo.
In realtà, all'inizio di tutto, astronomia e astrologia erano la stessa cosa:
osservare e studiare il cielo era un modo anche per “presagire” il futuro,
creando calendari, prevedendo le future eclissi del sole attraverso lo studio
del movimento delle stelle “fisse” e, soprattutto, l'osservazione di eventi
quali il sorgere della stella Sirio sull'orizzonte, ad esempio, indicava agli
Egizi che il Nilo presto si sarebbe prodigato in provvidenziali inondazioni. La vita sulla Terra era del tutto
intrecciata a quella del cielo, dagli aspetti più pratici a quelli più divini legati
al potere e alla sovranità sul regno. La storia dell'astronomia, dunque,
inizia inevitabilmente con quella degli uomini più “evoluti”: i babilonesi
furono i primi a creare mappe del cielo,
narrate attraverso la loro scrittura cuneiforme, accompagnate da previsioni sul
futuro basate sull'osservazione degli astri; ma esistono anche tavolette di
pietra che ritraggono i giovani re mentre ricevono il potere sovrano dal dio
Sole. E se questo diventa l'astro legato al potere, la Luna e la notte vengono
associati al sapere e quindi ai sacerdoti. Questi ultimi diventano gli studiosi
di un mistero conoscibile e studiabile: quello degli asterismi che ogni sera si
ripresentano lì in cielo e possono essere distinti in quelli fissi e quelli
mobili. Gli astri che si muovono lo fanno tutti nella stessa fascia di cielo,
quella dell'eclittica (termine che deriva da eclissi), cioè il percorso in cui
compie la propria rivoluzione il Sole, ma anche della Luna e dei pianeti. Tutto
è interpretabile e si cerca di capire il rapporto tra questi oggetti celesti e
tutti gli altri: le stelle fisse. Alla fine, le stelle presenti nella fascia
dell'eclittica vengono suddivise in gruppi e si creano i segni dello Zodiaco,
ancora oggi in uso. Tale è la sicurezza e la certezza dello studio delle orbite
celesti che i babilonesi incidono sassi quali delimitatori delle proprietà
fondiarie che riportano le coordinate terrestri in funzione di quelle celesti,
cioè indicando i segni dello zodiaco corrispondenti a quella latitudine e
longitudine.
Il corpo di Nut (il Cielo) ricopre Geb (la Terra): tra loro si interpone Shu, l'aria |
Successivamente, anche il vicino popolo degli antichi Egizi
presto inizia a costruire una propria cosmogonia molto forte: riprendendo gli
elementi dell'astronomia babilonese, creano il mito del dio solare Atum che
genera Shu (l'aria) e Tefnut (l'umidità); dalla loro unione nascono Geb e Nut,
cioè la Terra e il Cielo. Da questi la discendenza di Osiride, Iside, Seth e
Nefti... da qui il genere umano. Geb e Nut, in principio uniti, finiscono con
il separarsi e tra loro s'interpone l'aria... ma al di là di tutta la storia un
po' da feuilleton, la questione è che il mito ebbe delle conseguenze molto
importanti per secoli, fino ad Aristotele , il quale parlerà appunto di un
universo in cui la Terra è al centro, le sfere celesti intorno e l'aria si
interpone tra essi.
Geb, Nut e, in mezzo,
Shu
La cosmogonia egizia
raggiunge un'importanza tale che già nell'VIII secolo a.C. i sarcofagi
presentano sull'esterno le sembianze del defunto, ma la salma mummificata lì
custodita guarda la dea Nut raffigurata all'interno del coperchio. Il punto di
svolta dal “sapere” alla scienza avviene in Grecia: tutto ha inizio con
Pitagora e i pitagorici che inventano
tre termini:
Cosmo, che in
greco significa “ordine” e indica il fatto che tutto l'esistente è ordinato
secondo parametri numerici ed è dunque indagabile;
Nut, il cielo, con il corpo blu. Parigi, Louvre |
Filosofo, il
quale indica lo scopo della vita: amare il pensiero;
Matematica, che
deriva da mathèô (imparare), corrisponde al mondo degli “imparati”, coloro che
sanno.
Il mondo greco non vuole più anticipare e indovinare il
futuro, ma studiare e capire: da qui la nascita di strumenti basati su
ingranaggi, simili a quelli dei moderni orologi, che servivano a calcolare il
movimento degli astri nell'anno e negli anni. La cosmogonia greca finisce con
l'essere totalizzante e la rappresentazione che Aristotele ne fa non verrà più
messa in discussione per circa diciotto secoli: la Terra sta al centro e
intorno a essa si sviluppano strati successivi di materia a cui sono ancorati
gli astri; tra il nostro pianeta e queste sfere celesti si interpone l'aria. Le
impostazioni date da Pitagora e Anassimandro (filosofo e cartografo greco)
porteranno all'elaborazione di globi celesti dettagliatamente descritti, che
poi si diffonderanno nel mondo romano.
Da qui, per secoli gli
uomini hanno coltivato e nutrito il loro rapporto con il cielo, divulgandolo e
“onorandolo” attraverso continui riferimenti nell'arte, nell'architettura e
persino nelle religioni. Dal cristianesimo che affida la guida verso il
Cristo a una stella cometa ai culti mitraici che associano il potere della
Terra al segno del Toro, mentre lo Scorpione diventa l'impulso venale che
uccide la creatività; dagli affreschi di Pompei che raffigurano globi
astrologici agli affreschi, di epoca più tarda, de La stanza del mappamondo presso
Palazzo Farnese, del XVI secolo, a Caprarola (VT), in cui vengono rappresentate
carte geografiche con imponenti e bellissime riproduzioni del mondo allora
conosciuto. e, sul soffitto, la volta celeste, secondo un'iconografia che si
rifà ai globi dell'antica Grecia.
"Lo zodiaco": affresco di F. Zuccari (1566 ) sul soffitto della Sala del Mappamndo. Caprarola, Palazzo Farnese |
E ancora, le “alte sfere” si ritrovano anche all'interno di
architetture religiose quali Santa Maria del Popolo a Roma, in cui si può
trovare il mosaico del Deus Omnipotens, che, dall'alto di una delle cupole,
governa le stelle e i pianeti nell'ordine dei segni zodiacali rappresentati uno
a uno nei costoloni che la costituiscono.
Nel decorso della sua storia, l'Astronomia procede in un
intreccio costante tra mondo celeste e quello terrestre, fino al secolo dei
lumi, all'invenzione del cannocchiale effettuata da Galilei e al suo metodo
scientifico che rende tutto osservabile, sondabile e riproducibile; in
concomitanza, grazie a Keplero si stabiliscono le leggi matematiche che
regolano i movimenti dei corpi celesti... pian piano si pongono le basi
dell'astronomia moderna. Ma non è stata
la scientificità a sottrarre l'incanto all'immensità che ci sovrasta tutte le
notti, quindi l'interesse verso di essa e il contatto “magico” con le stelle
del firmamento... è stato il XIX secolo, con l'introduzione dell'illuminazione,
prima quella a gas, poi quella elettrica. Pian piano le città e poi i paesi si
sono animati di luci artificiali e queste hanno oscurato tutto il resto. Le luci in Terra hanno spento quelle
in cielo e da lì si è giunti a un livello d'inquinamento luminoso tale che
nelle grandi città ormai son visibili solo gli astri più notevoli quali i
pianeti Giove, Venere e Saturno, oltre che le stelle più luminose come Sirio,
Arturo, Spica... Con il procedere dei
secoli l'uomo ha “perso di vista” la volta celeste, ha perso l'abitudine di
guardarla, di fissare la Luna o perdersi nel tremolio delle stelle che
“bruciano”, saperlo distinguere dalla luce bianca e intensa che i pianeti
riflettono. Disabituati a guardare in alto e osservare, perché spesso anche
impossibilitati a causa dell'intensa illuminazione. E oltre a questo vi è
anche un calo attentivo della cultura nei confronti di questa scienza: la
geografia astronomica è ormai una materia a cui si dedica una piccola parte di
programma di un solo anno scolastico di qualche istituto superiore.
Dunque, in un mondo
che si muove così velocemente e in cui le informazioni culturali sono alla
portata della maggior parte di tutti noi, in una società evoluta socialmente,
tecnicamente, culturalmente, si ha comunque una visione parziale e
semplicistica del Tutto, manca la percezione di come il nostro pianeta sia solo
una particella sperduta in un universo costituito da milioni e milioni di corpi
celesti: pianeti, stelle, giganti rosse, comete, asteroidi, pulsar, sistemi
binari di astri e galassie tali e quali alla nostra Via Lattea, che continuano
a espandersi alla deriva di un universo di cui non si conosce la fine. In preda
a un'entropia in continuo aumento... in un mondo siderale fatto di numeri
spaventosi, incredibili, difficilmente immaginabili e di meccanismi che
sfuggono alla logica quotidiana. Ed è lì che la mente si perde e si meraviglia,
tesa a comprendere concetti che risultano inafferrabili per chi è sempre
abituato a rapportarsi con la “finitudine” della Terra. Una meraviglia che ha a
che fare con il magico, con il filosofico e, inevitabilmente, con l'ontologico.
Dunque due tipi diversi di problemi con un unico risultato:
un sapere che resta appannaggio degli “addetti ai lavori”. In realtà, il
problema reale è solo quello di matrice culturale e l'assenza di sproni che
suggeriscano di alzare il naso all'insù; al problema di ordine pratico si può
ovviare, partecipando alle numerose attività organizzate presso i planetari e
gli osservatori astronomici disseminati in tutta Italia.
A Milano, ad esempio, esiste il Planetario civico più grande
del Paese, che l'editore Ulrico Hoepli fece costruire per poi donarlo alla
città. Il nome dell'edificio è quello proprio dello strumento che rende la
“magia” possibile: all'interno della grande sala uno strumento molto sui
generis, il planetario appunto, proietta sulla cupola che sormonta la sala
l'immagine della volta celeste, riportando la posizione esatta degli astri gli
uni rispetto agli altri, seppur in scala ridotta.
Il Planetario di Milano
Nel giro di qualche minuto si assiste al tramonto del Sole
oltre l'orizzonte visibile e ci si ritrova immersi in una notte che ha la
consistenza di un buio disseminato di stelle, così come si può vedere ormai
solo in pochi isolatissimi posti al mondo. La stessa degli antichi popoli di
Babilonia. E' possibile riprodurre le condizioni astronomiche di qualsiasi
parte di cielo a qualsiasi ora del passato, del presente o del futuro. Si
riscopre così un mondo perduto, si scopre che è facile riconoscere le stelle
delle costellazioni più note, oltre che quelle dei segni zodiacali. Il
programma di attività per il pubblico è molto ricco, tutti i mesi dell'anno, e
lo si può consultare sul sito internet dell'istituto. Il 31 Luglio 2014 si è tenuta una conferenza intitolata “Giacomo
Leopardi e l'astronomia: dialogo tra un poeta e il cielo”, esempio concreto del
legame culturale di cui si è parlato anche in questo articolo.
Tra le iniziative del Planetario, si segnalano anche gli
incontri, per i più curiosi, che il Circolo Astrofili tiene presso questo
edificio ogni primo e ultimo mercoledì del mese: in queste serate si possono
seguire anche delle lezioni di “astrofisica”, del tutto gratuitamente, per
consentire un più facile approccio ai neofiti!
Per chi fosse interessato all'osservazione diretta del
cielo, esistono invece numerosi centri astronomici in cui sono programmate tali
attività con il pubblico e che hanno il vantaggio di una posizione privilegiata
sugli Appennini o a ridosso delle Alpi o delle Dolomiti, lontano dagli agenti
inquinanti. Si potrà così assistere a spettacoli inattesi, ad esempio riuscire
a vedere la nostra Via Lattea che appare sospesa in mezzo al cielo come una
leggera nube bianca o anche ammirare la Galassia di Andromeda a occhio nudo.
Qualcosa che ha a che fare con il dovere morale.
D'altronde, anche la mente raziocinante di un filosofo come Immanuel Kant sosteneva che:
“Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e
crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il
cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.
pubblicato con l'autorizzazione dell'autore
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