lunedì 11 agosto 2014

"Le vie del cielo" di Vincenzo Zaccone. Poesia, mito, astronomia

"Notte stellata": dipinto (1889) di Vincent Van Gogh.
NewYork, Museum of Modern Art
“E quando miro in cielo arder le stelle, 
dico tra me pensando:                 
a che tante facelle?”
(G.Leopardi)












Le grandi opere di Giacomo Leopardi
Questa è la domanda che si instilla nel pensiero di Giacomo Leopardi nell'osservare le “piccole luci abbaglianti” che si trovano in cielo nella notte. Domanda che ha un'implicanza filosofica nell'esistenzialismo pessimistico del poeta di Recanati, oltre che trovare la propria forma poetica nella composizione Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Leopardi scrive questo canto in piena fase del suo pessimismo cosmico, quello in cui è convinto che la felicità sia una componente naturale verso la quale l'uomo non può non tendere, ma al contempo è convinto che la Natura (figura onnipresente come progenitrice di tutti noi) non abbia dotato gli essere umani dei mezzi per arridere alla Felicità, gettandoli in balia di dolorosi accidenti, di malattie, del tedio, da cui l'uomo non potrà mai liberarsi.

Tutt'al più è concesso rifuggirvi e ottenere uno stato di quiete che si definisce non mediante una sua accezione diretta, ma in virtù dell'assenza del suo opposto: il dolore.
Il poeta per tutto il canto ragiona dello stato dei “mortali”, sia uomini sia animali, rapportandosi di continuo alla Natura (definita ne La Ginestra “Madre di parto e di voler matrigna”), al cielo, alle stelle, che osserva nel loro brillare, e alla sua “familiare” Luna che vede esser “silenziosa”, distaccata nel percorrere il suo sempiterno cammino intorno alla Terra senza curarsi del destino di dolore in cui incorrono tutti gli essere viventi; e, ponendosi delle domande, per l'intero  canto si rivolge in continuazione direttamente a Essa e si convince che alla Luna “del suo dir poco cale”. Il contatto diretto del pastore errante con ciò che lo circonda, e in modo particolare con la Luna e il cielo, lo portano a porsi delle domande che inevitabilmente non trovano risposta, che non riescono a cogliere il senso di tutto e nemmeno a intuirne alcuno. E in questo rapporto di paragone che s'instaura con il cielo delle stelle fisse, il pastore (quindi Leopardi) coglie il distacco tra “la sorte delle umane genti” (così come si legge in A Silvia) e quella impassibile dello spazio infinito che le sovrasta. Il canto finirà con una considerazione amara ma che il Leopardi crede sia un dovere “umano” non nascondere a se stessi: “E' funesto a chi nasce il dì natale”.

In realtà, il grande poeta riesce a rendere nella forma eterna dei versi di questo canto delle domande, dei sentori, dei pensieri che sgorgano in maniera spontanea non appena ci si interfaccia con scenari mozzafiato, con luoghi che si estendono a perdita d'occhio, quando ci si raffronta con l'immensità di ciò che ci circonda, dagli eventi più straordinari della natura, al cielo buio, enorme, che lascia presagire un'infinità che molto probabilmente, in realtà, non esiste. La cosa davvero “spettacolare” è la percezione di avere a che fare con qualcosa di “sovrannaturale”, del tutto distaccato da ciò che è terreno: l'infinito, della cui esistenza non si ha prova alcuna, esistente semplicemente in funzione del finito: di questo si ha una definizione poggiata su basi reali e concrete. E già che, per una questione di logica e di lingua, nel momento in cui si definisce una cosa in automatico viene definito anche l'opposto della stessa, allora si è giunti a creare con la mente l'infinito. Ma, tornando al nostro discorso, è proprio la percezione di questa “infinità” che l'uomo vede concretizzata nelle grandiosità della natura, così come nei recessi del cielo buio, a indurre la mente a vagolare e perdersi nei meandri del passato più doloroso, del futuro più immaginifico, delle verità più sfumate che hanno a che fare con il “sé” e anche, spesso, a compiere salti interpretativi e giungere alla prove dell'esistenza di un'entità superiore che governa il macro e il microcosmo.



Punto in comune a tutto ciò è il fatto che di fronte all'immenso l'Uomo pensa, riflette, si perde di vista.
E questo tipo di contatto è tuttora sempre voluto e ricercato, fosse anche solo nella sterminata distesa di un mare che si perde oltre l'orizzonte. Nel caso di Leopardi, appunto, la ricerca del metafisico avviene sempre nella dimensione del cielo notturno, della volta celeste, della Luna o delle stelle dell'Orsa (Le Ricordanze). Perché Leopardi è un uomo che si forma nella biblioteca creata dal padre nella sua casa natale e lì il bambino affronta lo studio di tutte le materie, da quelle umanistiche a quelle scientifiche; a soli 15 anni scrive già Storia dell'astronomia. Dunque lui, uomo dell'800, ha un rapporto molto stretto con le scienze astronomiche e questo si evince in diversi punti della sua produzione letteraria. Ma, in realtà, l'accento che il poeta sembra porre su questa scienza non è altro che una semplice “devozione” nei confronti di un campo della conoscenza che faceva parte della vita culturale dell'epoca, non solo nell'ambito strettamente scientifico, ma anche artistico e umanistico.
L'astronomia è definita come la scienza più antica di tutte, per il semplice motivo che nel momento in cui la luce del sole si estingueva al di sotto della linea dell'orizzonte, all'uomo primitivo non restava altro che un'immensità di stelle disseminate nel buio. E l'osservazione delle stelle, attenta, solerte, reiterata, ha portato l'uomo a usare la propria fantasia per collegarle e raggrupparle per vedere proiettate in cielo le figure che riteneva più importanti, da un punto di vista sia simbolico che pratico.
E' stato così che con il passare dei secoli, il cielo è stato suddiviso in 88 regioni che sono le costellazioni e il cammino apparente che il sole descrive intorno alla Terra (l'eclittica) è stato lastricato con figure e storie appartenenti all'Epos.

Lo Zodiaco, che fa da sfondo al Sole in cielo
Così si ha che l'Ariete è quello il cui vello d'oro è stato l'obiettivo del viaggio di Giasone e gli Argonauti; il Toro è l'animale in cui Zeus si tramutò per conquistare la principessa fenicia Europa; i Gemelli sono i diòscuri (ossia figli di Zeus) Castore e Polluce... e così via in una serie di rimandi mitologici che hanno una forte importanza anche del tutto pratica. Sì, perché i nostri antenati si misero a guardare il cielo e iniziarono a costruirvi una mappa che fosse utile per  “muoversi” sia nel loro lavoro in terra che per mare. E così la Vergine tiene in mano una spiga, perché, essendo visibile in tutti i mesi primaverili, rendesse riconoscibile il periodo dell'anno giusto per le coltivazioni di frumento. Allo stesso modo, la costellazione del Gran Carro è parte di una ben più grande, quella dell'Orsa Maggiore, ed è stata da sempre molto importante in quanto le stelle posteriori del carro sono chiamate “puntatrici”, perché immaginando la linea che congiunge quella più in basso a quella più a nord e prolungando la linea ottenuta per cinque volte, ci si imbatte direttamente nella Stella Polare, importante punto di riferimento per la navigazione.


La linea immaginaria che congiunge Merach, Dubhe e Polaris.    Non a caso, il nome delle stelle che la compongono, come spesso accade in astronomia, è arabo, perché i primi grandi navigatori e astronomi  della storia furono i Babilonesi, i quali iniziarono a studiare le stelle, come la Stella Polare appunto, per avere dei punti di riferimento nella navigazione notturna. 

Poi, è ovvio, ogni popolazione poteva “vedere” in cielo la rappresentazione degli oggetti che riteneva più significativi: ad esempio l'asterisma (nome con cui in astronomia ci si riferisce a un gruppo di stelle visibili a occhio nudo) che noi chiamiamo Orsa Maggiore, per gli antichi Egizi era un ippopotamo!
E' poi molto interessante notare come parecchi aspetti linguistici attuali siano connessi al mondo dell'astronomia; e si sa quanto i modi di dire e il modo di esprimersi siano particolarmente sintomatici delle origini della cultura di un popolo. Ad esempio, sempre in merito al nostro “prezioso” Gran Carro, i Greci vedevano nelle sette stelle che lo compongono un semplice aratro, mentre i Latini erano capaci di disegnarvi mentalmente un carro trainato da sette buoi.

Il Grande Carro
In latino le due parole sono septem e triones... da cui la parola settentrione, sostantivo che si riferisce al nord geografico così come la presenza di quel gruppo di stelle indica il nord celeste. Allo stesso modo, la parola desiderio è composta dalla particella de- (da) e la parola -sidera (stella); nel suo insieme dunque associa l'idea dell'anelito a quella della lontananza dalle stelle che diventano simbolo dell'oggetto agognato e irraggiungibile, quindi ciò verso cui nasce il sentimento della bramosia. E' per questo che quando s'intercetta con lo sguardo una stella cadente bisogna esprimere un desiderio: in quel momento ciò che si desidera accorcia le proprie distanze da noi. Ovviamente le interpretazioni sono diverse… ne esiste anche un'altra secondo la quale il desiderio delle cose è creduto essere un influsso trascendente, proveniente dalle stelle: gli esseri umani obbediscono sia ai bisogni di ordine pratico, sia ai loro desideri, cioè a motivi indotti dalle stelle... cioè nient'altro che quello a cui si vuol credere quando si legge un oroscopo!
In ogni caso, al di là dell'interpretazione, restano due punti fermi, del tutto attuali: il fatto che ogni aspetto della cultura umana sia intessuto dell'osservazione degli astri e la triste evidenza che ormai il mondo delle stelle entra a far parte del “nostro” solo sotto forma di oroscopo. In realtà, all'inizio di tutto, astronomia e astrologia erano la stessa cosa: osservare e studiare il cielo era un modo anche per “presagire” il futuro, creando calendari, prevedendo le future eclissi del sole attraverso lo studio del movimento delle stelle “fisse” e, soprattutto, l'osservazione di eventi quali il sorgere della stella Sirio sull'orizzonte, ad esempio, indicava agli Egizi che il Nilo presto si sarebbe prodigato in  provvidenziali inondazioni. La vita sulla Terra era del tutto intrecciata a quella del cielo, dagli aspetti più pratici a quelli più divini legati al potere e alla sovranità sul regno. La storia dell'astronomia, dunque, inizia inevitabilmente con quella degli uomini più “evoluti”: i babilonesi furono i primi a creare  mappe del cielo, narrate attraverso la loro scrittura cuneiforme, accompagnate da previsioni sul futuro basate sull'osservazione degli astri; ma esistono anche tavolette di pietra che ritraggono i giovani re mentre ricevono il potere sovrano dal dio Sole. E se questo diventa l'astro legato al potere, la Luna e la notte vengono associati al sapere e quindi ai sacerdoti. Questi ultimi diventano gli studiosi di un mistero conoscibile e studiabile: quello degli asterismi che ogni sera si ripresentano lì in cielo e possono essere distinti in quelli fissi e quelli mobili. Gli astri che si muovono lo fanno tutti nella stessa fascia di cielo, quella dell'eclittica (termine che deriva da eclissi), cioè il percorso in cui compie la propria rivoluzione il Sole, ma anche della Luna e dei pianeti. Tutto è interpretabile e si cerca di capire il rapporto tra questi oggetti celesti e tutti gli altri: le stelle fisse. Alla fine, le stelle presenti nella fascia dell'eclittica vengono suddivise in gruppi e si creano i segni dello Zodiaco, ancora oggi in uso. Tale è la sicurezza e la certezza dello studio delle orbite celesti che i babilonesi incidono sassi quali delimitatori delle proprietà fondiarie che riportano le coordinate terrestri in funzione di quelle celesti, cioè indicando i segni dello zodiaco corrispondenti a quella latitudine e longitudine.
Il corpo di Nut (il Cielo) ricopre Geb (la Terra):
tra loro si interpone Shu, l'aria
Successivamente, anche il vicino popolo degli antichi Egizi presto inizia a costruire una propria cosmogonia molto forte: riprendendo gli elementi dell'astronomia babilonese, creano il mito del dio solare Atum che genera Shu (l'aria) e Tefnut (l'umidità); dalla loro unione nascono Geb e Nut, cioè la Terra e il Cielo. Da questi la discendenza di Osiride, Iside, Seth e Nefti... da qui il genere umano. Geb e Nut, in principio uniti, finiscono con il separarsi e tra loro s'interpone l'aria... ma al di là di tutta la storia un po' da feuilleton, la questione è che il mito ebbe delle conseguenze molto importanti per secoli, fino ad Aristotele , il quale parlerà appunto di un universo in cui la Terra è al centro, le sfere celesti intorno e l'aria si interpone tra essi.

Geb, Nut e, in mezzo, Shu                           
La cosmogonia egizia raggiunge un'importanza tale che già nell'VIII secolo a.C. i sarcofagi presentano sull'esterno le sembianze del defunto, ma la salma mummificata lì custodita guarda la dea Nut raffigurata all'interno del coperchio. Il punto di svolta dal “sapere” alla scienza avviene in Grecia: tutto ha inizio con Pitagora e i pitagorici che inventano  tre termini:
Cosmo, che in greco significa “ordine” e indica il fatto che tutto l'esistente è ordinato secondo parametri numerici ed è dunque indagabile;
Nut, il cielo, con il corpo blu.
Parigi, Louvre
Filosofo, il quale indica lo scopo della vita: amare il pensiero;
Matematica, che deriva da mathèô (imparare), corrisponde al mondo degli “imparati”, coloro che sanno.
Il mondo greco non vuole più anticipare e indovinare il futuro, ma studiare e capire: da qui la nascita di strumenti basati su ingranaggi, simili a quelli dei moderni orologi, che servivano a calcolare il movimento degli astri nell'anno e negli anni. La cosmogonia greca finisce con l'essere totalizzante e la rappresentazione che Aristotele ne fa non verrà più messa in discussione per circa diciotto secoli: la Terra sta al centro e intorno a essa si sviluppano strati successivi di materia a cui sono ancorati gli astri; tra il nostro pianeta e queste sfere celesti si interpone l'aria. Le impostazioni date da Pitagora e Anassimandro (filosofo e cartografo greco) porteranno all'elaborazione di globi celesti dettagliatamente descritti, che poi si diffonderanno nel mondo romano.
Da qui, per secoli gli uomini hanno coltivato e nutrito il loro rapporto con il cielo, divulgandolo e “onorandolo” attraverso continui riferimenti nell'arte, nell'architettura e persino nelle religioni. Dal cristianesimo che affida la guida verso il Cristo a una stella cometa ai culti mitraici che associano il potere della Terra al segno del Toro, mentre lo Scorpione diventa l'impulso venale che uccide la creatività; dagli affreschi di Pompei che raffigurano globi astrologici agli affreschi, di epoca più tarda, de La stanza del mappamondo presso Palazzo Farnese, del XVI secolo, a Caprarola (VT), in cui vengono rappresentate carte geografiche con imponenti e bellissime riproduzioni del mondo allora conosciuto. e, sul soffitto, la volta celeste, secondo un'iconografia che si rifà ai globi dell'antica Grecia.

"Lo zodiaco": affresco di F. Zuccari (1566 ) sul soffitto della Sala del Mappamndo. Caprarola, Palazzo Farnese

E ancora, le “alte sfere” si ritrovano anche all'interno di architetture religiose quali Santa Maria del Popolo a Roma, in cui si può trovare il mosaico del Deus Omnipotens, che, dall'alto di una delle cupole, governa le stelle e i pianeti nell'ordine dei segni zodiacali rappresentati uno a uno nei costoloni che la costituiscono.

La Cupola e il Dio Onnipotente
Nel decorso della sua storia, l'Astronomia procede in un intreccio costante tra mondo celeste e quello terrestre, fino al secolo dei lumi, all'invenzione del cannocchiale effettuata da Galilei e al suo metodo scientifico che rende tutto osservabile, sondabile e riproducibile; in concomitanza, grazie a Keplero si stabiliscono le leggi matematiche che regolano i movimenti dei corpi celesti... pian piano si pongono le basi dell'astronomia moderna. Ma non è stata la scientificità a sottrarre l'incanto all'immensità che ci sovrasta tutte le notti, quindi l'interesse verso di essa e il contatto “magico” con le stelle del firmamento... è stato il XIX secolo, con l'introduzione dell'illuminazione, prima quella a gas, poi quella elettrica. Pian piano le città e poi i paesi si sono animati di luci artificiali e queste hanno oscurato tutto il resto. Le luci in Terra hanno spento quelle in cielo e da lì si è giunti a un livello d'inquinamento luminoso tale che nelle grandi città ormai son visibili solo gli astri più notevoli quali i pianeti Giove, Venere e Saturno, oltre che le stelle più luminose come Sirio, Arturo, Spica... Con il procedere dei secoli l'uomo ha “perso di vista” la volta celeste, ha perso l'abitudine di guardarla, di fissare la Luna o perdersi nel tremolio delle stelle che “bruciano”, saperlo distinguere dalla luce bianca e intensa che i pianeti riflettono. Disabituati a guardare in alto e osservare, perché spesso anche impossibilitati a causa dell'intensa illuminazione. E oltre a questo vi è anche un calo attentivo della cultura nei confronti di questa scienza: la geografia astronomica è ormai una materia a cui si dedica una piccola parte di programma di un solo anno scolastico di qualche istituto superiore.
Dunque, in un mondo che si muove così velocemente e in cui le informazioni culturali sono alla portata della maggior parte di tutti noi, in una società evoluta socialmente, tecnicamente, culturalmente, si ha comunque una visione parziale e semplicistica del Tutto, manca la percezione di come il nostro pianeta sia solo una particella sperduta in un universo costituito da milioni e milioni di corpi celesti: pianeti, stelle, giganti rosse, comete, asteroidi, pulsar, sistemi binari di astri e galassie tali e quali alla nostra Via Lattea, che continuano a espandersi alla deriva di un universo di cui non si conosce la fine. In preda a un'entropia in continuo aumento... in un mondo siderale fatto di numeri spaventosi, incredibili, difficilmente immaginabili e di meccanismi che sfuggono alla logica quotidiana. Ed è lì che la mente si perde e si meraviglia, tesa a comprendere concetti che risultano inafferrabili per chi è sempre abituato a rapportarsi con la “finitudine” della Terra. Una meraviglia che ha a che fare con il magico, con il filosofico e, inevitabilmente, con l'ontologico.

Dunque due tipi diversi di problemi con un unico risultato: un sapere che resta appannaggio degli “addetti ai lavori”. In realtà, il problema reale è solo quello di matrice culturale e l'assenza di sproni che suggeriscano di alzare il naso all'insù; al problema di ordine pratico si può ovviare, partecipando alle numerose attività organizzate presso i planetari e gli osservatori astronomici disseminati in tutta Italia.
A Milano, ad esempio, esiste il Planetario civico più grande del Paese, che l'editore Ulrico Hoepli fece costruire per poi donarlo alla città. Il nome dell'edificio è quello proprio dello strumento che rende la “magia” possibile: all'interno della grande sala uno strumento molto sui generis, il planetario appunto, proietta sulla cupola che sormonta la sala l'immagine della volta celeste, riportando la posizione esatta degli astri gli uni rispetto agli altri, seppur in scala ridotta.

 Il Planetario di Milano                                 
Nel giro di qualche minuto si assiste al tramonto del Sole oltre l'orizzonte visibile e ci si ritrova immersi in una notte che ha la consistenza di un buio disseminato di stelle, così come si può vedere ormai solo in pochi isolatissimi posti al mondo. La stessa degli antichi popoli di Babilonia. E' possibile riprodurre le condizioni astronomiche di qualsiasi parte di cielo a qualsiasi ora del passato, del presente o del futuro. Si riscopre così un mondo perduto, si scopre che è facile riconoscere le stelle delle costellazioni più note, oltre che quelle dei segni zodiacali. Il programma di attività per il pubblico è molto ricco, tutti i mesi dell'anno, e lo si può consultare sul sito internet dell'istituto. Il 31 Luglio 2014  si è tenuta una conferenza intitolata “Giacomo Leopardi e l'astronomia: dialogo tra un poeta e il cielo”, esempio concreto del legame culturale di cui si è parlato anche in questo articolo.
Tra le iniziative del Planetario, si segnalano anche gli incontri, per i più curiosi, che il Circolo Astrofili tiene presso questo edificio ogni primo e ultimo mercoledì del mese: in queste serate si possono seguire anche delle lezioni di “astrofisica”, del tutto gratuitamente, per consentire un più facile approccio ai neofiti!
Per chi fosse interessato all'osservazione diretta del cielo, esistono invece numerosi centri astronomici in cui sono programmate tali attività con il pubblico e che hanno il vantaggio di una posizione privilegiata sugli Appennini o a ridosso delle Alpi o delle Dolomiti, lontano dagli agenti inquinanti. Si potrà così assistere a spettacoli inattesi, ad esempio riuscire a vedere la nostra Via Lattea che appare sospesa in mezzo al cielo come una leggera nube bianca o anche ammirare la Galassia di Andromeda a occhio nudo.
Qualcosa che ha a che fare con il dovere morale.
D'altronde, anche la mente raziocinante di un filosofo come Immanuel Kant sosteneva che:

“Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.


pubblicato con l'autorizzazione dell'autore e di

 
Dal film "ET" di S. Spielberg

Nessun commento:

Posta un commento