21 dicembre 2018 - Biblioteca di Rescaldina - Sull'argomento Calice di vino Giampy Calibano ha scritto questo racconto ammantato di nostalgia e di divertimento
L’Abruzzo
o gli Abruzzi, non l’ho mai capito come è giusto dire, ma da bambino passavo
spesso le vacanze estive da mia zia, in un paesino abruzzese dove le porte di
casa non si chiudevano a chiave; tutti andavano in auto, anche per fare pochi
metri e ovviamente le macchine parcheggiate non venivano chiuse.
La
cosa mi lasciava alquanto stupito. In fondo dovete considerare che venivo da
una borgata romana; dalle mie parti era normale essere fermato da qualcuno che
“gentilmente” ti rubava i soldi nel
portafogli (all’epoca scarse cinquecento lire), figuriamoci se avessimo
lasciato le porte aperte.
Questo
paesino, che chiameremo per l’occasione
Castel Borsano, aveva viuzze piccole, le case si affacciavano sulla
strada tramite un portone con degli scalini o un piccolo giardinetto; di solito
c’era seduta una signora, che nei miei ricordi sembrava sempre anziana, vestita
di nero, con un foulard per raccogliere i capelli e tra le mani qualcosa da
fare.
Tutte
le vie conducevano a una grande piazza quadrata con due bar negli angoli
opposti. Nei tavolini all’aperto si sentiva il vociare di persone intente a
giocare a carte.
– Ting’ bastone, butta a bascio a briscola.
– O’ Marione... ti non zi proprio capace.
L’estate
stava sparando le ultime cartucce, i tigli nella piazza cominciavano a
spogliarsi.
Marione
era un omone di centoventi chili anche un po’ permaloso. Quando perse la
partita di briscola con mio zio, si alzò e disse: – Vabbuò a briscola siì più forte, ma o vine meu nze batte.
Mio
zio Nando, preso dall’euforia della vittoria, e ancora sotto l’effetto
adrenalinico del gioco rilanciò la posta: – See… devi assaggia’ lo meu.
– Ah sì – disse Marione – e quando? – pronunciò
girandosi verso gli altri con un sorriso vagamente ironico.
La
festa del patrono prevedeva la processione per la vie del paese della statua
del Santo. Era una festa che durava una settimana e finiva la prima domenica
dopo il 30 novembre, giorno appunto di Sant’Andrea. C’erano bancarelle ovunque,
bambini liberi di giocare e tutta la proloco impegnata nella ricerca dei soldi
per pagare il concerto di qualche cantante di grido, che per Castel Borsano
voleva dire Gianni Nazzaro oppure Wilma De Angelis.
Quando
mia zia venne a conoscenza della sfida, subito rimproverò zio Nando: – Ma ti
si’ impazzito? Come lo fai lu vine! Non
hai cantina, né attrezzature, né esperienza.
Lui
alzò la testa, fece una specie di sbuffo con le labbra e rispose: – Vabbuò ‘a
cantina la tengo.
La
casa dei miei zii era una villa abitata solo d’estate, perchè entrambi
lavoravano a Roma. Mio zio, per orgoglio, mai e poi mai avrebbe ammesso che un
paesano “doc” (uno di quelli che abitavano lì tutto l’anno) era più bravo di
lui a fare qualcosa.
– Ricca’ vieni giù a darmi una mano? – mi chiese.
Fu
così che partì l’operazione “calice di vino”. Riccardo, che poi sarei io (un
pischello di 15 anni) e Nando (l’abruzzese trapiantato nella capitale)
avrebbero formato la strana coppia alla conquista di Castel Borsano.
La
cantina della villa era al pianoterra. Si presentava ancora non rifinita, i
muri erano grezzi, le stanze senza porte, in un angolo si vedeva tutta la legna
accatastata per il camino, le biciclette ricoverate e un vecchio motorino
arrugginito. La sala più grande aveva un enorme tavolo: riserva di caccia di un
gruppo di termiti.
Quando
si trattava di vincere una sfida mio zio non badava a spese.
– Allora ho sentito Tullio, le vasche per la pigiatura
le possiamo mettere qui dentro, mi ha detto che ne ha un paio usate a buon
prezzo. Ricca’ tu non studi per diventare perito agrario, che altro ci serve
per fare il vino?
– Zio serve tutta una serie di cose che vanno dalla
diraspatrice, al torchio, ai lieviti, alle bottiglie o damigiane, ai filtri,
tanta roba insomma.
– Sì vabbuò, ma quanto costa?
– Tanto.
Alla
fine convinsi mio zio a lasciare stare le vasche usate di Tullio e ci
rivolgemmo a un consorzio agrario per comprare un kit completo per la
vinificazione.
– Non dì niente, a zia – mi fece promettere. Erano un
bel po’ di soldi.
Il
problema principale era il tempo. Il vino ha bisogno di fermentare, di
decantare, prima di essere imbottigliato. Seguendo la procedura tradizionale
non saremmo mai riusciti ad avere una bottiglia da far assaggiare alla festa
del Patrono. Ebbi però una intuizione: “la macerazione carbonica”.
– E che robb’è? – chiese mio zio quando gli esposi
l’idea.
– Non ha mai sentito parlare del Beaujolais, il vino
novello?
– No, conosco le patate novelle, quelle di Avezzano.
Anche
se non era esperto, mio zio ci mise tutta la volontà possibile; organizzammo
quindi un piccolo laboratorio di vinificazione.
La
tecnica della macerazione carbonica prevede che i grappoli d’uva, senza essere
diraspati, vengano messi dentro un serbatoio ripieno di anidride carbonica, per
un tempo variabile da qualche ora a più giorni. Si ottiene così una
fermentazione in assenza di ossigeno, l’uva viene lasciata a macerare e durante
questo periodo l'alcol estrae dall'interno tutte le sostanze aromatiche della
polpa. Una procedura molto più veloce di quella tradizionale.
– Riccà, ma si’ proprio sicuro che dentre ‘sto cosu se
fa lu vine? – mi chiedeva scettico.
L’estate
passò, ma io continuai a frequentare per diversi weekend la casa dei miei zii,
così il giorno del grande evento eravamo pronti.
– Un po’ leggerino ma bono! – disse zio Nando al primo
bicchiere – bravo, si’ stato proprio bravo.
Beh...
sono soddisfazioni, quando un abruzzese ti dice che sei stato bravo. Per me era
come se avessi già vinto.
Il
vino “leggerino” diventò un piccolo problema, perchè al primo bicchiere seguì
un secondo e poi un terzo, fino a scolare l’intera bottiglia. Insomma ci
ritrovammo alla sfida che mio zio era
completamento brillo.
La
giuria era composta da Sandro il farmacista, Peppino il maresciallo della
stazione dei carabinieri e Don Bruno, il Parroco del paese.
Ognuno
di loro con gli occhi bendati avrebbe dovuto assaggiare prima un bicchiere di
un sfidante e poi dell’altro, per tre volte, fine a decretare il vincitore.
Quando
arrivammo mio zio insultò subito Marione.
– Panzone
puzzolente teni lu vine fatto con le cartine, mo sentirai lu vine bono
veramente.
– Ma che ne sai tu! Si’ capaci solo a metti li timbre
insù le carte au Ministere. (si riferiva al fatto che mio zio era un dipendente
del ministero del tesoro).
– I song cavaliere del lavoro, hai capito!
– Tu si’ solo un raccomandato.
Sembravano
due pugili prima di salire sul ring.
Cassius Clay contro Frazier. Mio zio saltava come se stesse ballando la tarantella,
girava intorno a Marione, che, come un Mammut avanzava a testa bassa.
Don
Bruno cercò di fare da paciere mettendosi in mezzo tra i due.
– Boni. Fate li bravi, che Sant’Andrea vi guarda.
– Allora, lo vogliamo assaggiare ‘sto vino – si
intromise anche il farmacista.
il
Maresciallo senza dire niente se lo era già versato e beveva atteggiandosi
esperto sommelier. Faceva dei versi con la bocca, mentre roteava il bicchiere
con il vino.
– Mmm… buono, gusto fresco, leggermente acidulo,
sentori di mela – disse.
Nel
gruppo di persone che si accalcavano vicino al tavolo della sfida c’era anche
una ragazza, si nascondeva dietro un ciuffo di capelli biondi. Alta, magra, con
i pantaloncini e la divisa da boy scout, guardava con l’aria spaesata di chi
fosse capitato là per caso.
Solo
dopo venni a sapere che si chiamava Teresa ed era la figlia di Marione.
-
Maresciallo, ma cosa ha bevuto? Quella
era una bottiglia che mi aveva regalato il farmacista – tuonò Don Bruno alla
vista del carabiniere-sommelier.
-
No! Così si inficia tutto – sentenziò il farmacista – adesso il palato è stato sensibilizzato da un
altro sapore.
– Basterà che beva un po’ d’acqua – provai a
intervenire.
– Se volete ho qua la mia borraccia – disse la ragazza
con una vocina tremolante.
– Come acqua! – gridarono all’unisono quasi tutti i
presenti.
– Brava – risposi avvicinandomi a lei fino a toccarle
le mani. Eravamo uno di fronte all’altra e tenevamo insieme la borraccia,
mentre la guardavo.
– Sti’ luntane dalla mi fija – urlò Marione. L’energumeno
si liberò dalla stretta di Don Bruno, agitò le braccia come pale di un mulino a
vento e si lanciò verso di me.
Il
maresciallo cercò di fermarlo peggiorando la situazione. Lui tentò di scartarlo
con una finta degna di un giocatore di rugby, nel movimento travolse però il
tavolo. Tutte le bottiglie della gara caddero a terra fracassandosi; il vino
colorò di rosso il pavimento.
A
quel punto successe un fatto strano. Voi non ci crederete, ma una luce
fortissima s’irradiò dal liquido che colava dai frantumi di vetro, illuminò
tutta la sala, bloccò in un silenzio irreale le persone e si posò sopra di noi.
Non
so per quanto tempo tutti rimasero fermi e muti.
Teresa
la boy scout, la figlia di Marione, il ciuffo biondo mi sorrise, si avvicinò e
la luce ci ricoprì di bianco, un bagliore dalle sue mani si propagò nelle mie,
sentii come una scossa dalle labbra attraversarmi il corpo.
Poi
luce andò via e si udì un: – Nooo! – prolungato da parte di giudici, spettatori
e concorrenti.
Tutti
furono presi dalle bottiglie cadute e nessuno fece più caso a noi.
Su
indicazione di Don Bruno e avvallo del Maresciallo si decise di annullare la
sfida. La festa però continuò, la folla fu attratta dall’albero della cuccagna
e dal prosciutto intero messo in palio. Alla fine io e Teresa, mano nella mano,
andammo come tutti in processione dietro al Santo.
Ecco,
questa è la storia del mio primo bacio, avvenuto grazie a un miracolo.
Ricordo
che passai l’estate successiva a chiedere anche a lei se era più giusto dire
Abruzzo o gli Abruzzi, senza avere una risposta.
– Sarai pure bravo a fa lu vine, ma a baciare si’
proprio imbranato – mi diceva, e io la guardavo innamorato.
Le
donne, anche quelle abruzzesi, hanno sempre una marcia in più.
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