mercoledì 3 aprile 2019

"Calice di vino" racconto di Giampy Calibano per Il Vizio di scrivere


21 dicembre 2018 - Biblioteca di Rescaldina - Sull'argomento Calice di vino  Giampy Calibano ha scritto questo racconto ammantato di nostalgia e di divertimento


L’Abruzzo o gli Abruzzi, non l’ho mai capito come è giusto dire, ma da bambino passavo spesso le vacanze estive da mia zia, in un paesino abruzzese dove le porte di casa non si chiudevano a chiave; tutti andavano in auto, anche per fare pochi metri e ovviamente le macchine parcheggiate non venivano chiuse. 
La cosa mi lasciava alquanto stupito. In fondo dovete considerare che venivo da una borgata romana; dalle mie parti era normale essere fermato da qualcuno che “gentilmente”  ti rubava i soldi nel portafogli (all’epoca scarse cinquecento lire), figuriamoci se avessimo lasciato le porte aperte. 
Questo paesino, che chiameremo per l’occasione  Castel Borsano, aveva viuzze piccole, le case si affacciavano sulla strada tramite un portone con degli scalini o un piccolo giardinetto; di solito c’era seduta una signora, che nei miei ricordi sembrava sempre anziana, vestita di nero, con un foulard per raccogliere i capelli e tra le mani qualcosa da fare.
Tutte le vie conducevano a una grande piazza quadrata con due bar negli angoli opposti. Nei tavolini all’aperto si sentiva il vociare di persone intente a giocare a carte.


Ting’ bastone, butta a bascio a briscola.
O’ Marione... ti non zi proprio capace.
L’estate stava sparando le ultime cartucce, i tigli nella piazza cominciavano a spogliarsi.
Marione era un omone di centoventi chili anche un po’ permaloso. Quando perse la partita di briscola con mio zio, si alzò e disse: – Vabbuò  a briscola siì più forte, ma o vine meu nze batte.
Mio zio Nando, preso dall’euforia della vittoria, e ancora sotto l’effetto adrenalinico del gioco rilanciò la posta: – See… devi assaggia’ lo meu.
Ah sì – disse Marione – e quando? – pronunciò girandosi verso gli altri con un sorriso vagamente ironico.
Alla festa di Sant’Andrea, il patrone del paese – rispose  mio zio.

La festa del patrono prevedeva la processione per la vie del paese della statua del Santo. Era una festa che durava una settimana e finiva la prima domenica dopo il 30 novembre, giorno appunto di Sant’Andrea. C’erano bancarelle ovunque, bambini liberi di giocare e tutta la proloco impegnata nella ricerca dei soldi per pagare il concerto di qualche cantante di grido, che per Castel Borsano voleva dire Gianni Nazzaro oppure Wilma De Angelis.
Quando mia zia venne a conoscenza della sfida, subito rimproverò zio Nando: – Ma ti si’ impazzito?  Come lo fai lu vine! Non hai cantina, né attrezzature, né esperienza.
Lui alzò la testa, fece una specie di sbuffo con le labbra e rispose: – Vabbuò ‘a cantina la tengo.

La casa dei miei zii era una villa abitata solo d’estate, perchè entrambi lavoravano a Roma. Mio zio, per orgoglio, mai e poi mai avrebbe ammesso che un paesano “doc” (uno di quelli che abitavano lì tutto l’anno) era più bravo di lui a fare qualcosa.
Ricca’ vieni giù a darmi una mano? – mi chiese.
Fu così che partì l’operazione “calice di vino”. Riccardo, che poi sarei io (un pischello di 15 anni) e Nando (l’abruzzese trapiantato nella capitale) avrebbero formato la strana coppia alla conquista di Castel Borsano.
La cantina della villa era al pianoterra. Si presentava ancora non rifinita, i muri erano grezzi, le stanze senza porte, in un angolo si vedeva tutta la legna accatastata per il camino, le biciclette ricoverate e un vecchio motorino arrugginito. La sala più grande aveva un enorme tavolo: riserva di caccia di un gruppo di termiti.
Quando si trattava di vincere una sfida mio zio non badava a spese.
Allora ho sentito Tullio, le vasche per la pigiatura le possiamo mettere qui dentro, mi ha detto che ne ha un paio usate a buon prezzo. Ricca’ tu non studi per diventare perito agrario, che altro ci serve per fare il vino?
Zio serve tutta una serie di cose che vanno dalla diraspatrice, al torchio, ai lieviti, alle bottiglie o damigiane, ai filtri, tanta roba insomma.
Sì vabbuò, ma quanto costa?
 – Tanto.
Alla fine convinsi mio zio a lasciare stare le vasche usate di Tullio e ci rivolgemmo a un consorzio agrario per comprare un kit completo per la vinificazione.
– Non dì niente, a zia – mi fece promettere. Erano un bel po’ di soldi.
Il problema principale era il tempo. Il vino ha bisogno di fermentare, di decantare, prima di essere imbottigliato. Seguendo la procedura tradizionale non saremmo mai riusciti ad avere una bottiglia da far assaggiare alla festa del Patrono. Ebbi però una intuizione: “la macerazione carbonica”.
E che robb’è? – chiese mio zio quando gli esposi l’idea.
Non ha mai sentito parlare del Beaujolais, il vino novello?
No, conosco le patate novelle, quelle di Avezzano.
Anche se non era esperto, mio zio ci mise tutta la volontà possibile; organizzammo quindi un piccolo laboratorio di vinificazione.
La tecnica della macerazione carbonica prevede che i grappoli d’uva, senza essere diraspati, vengano messi dentro un serbatoio ripieno di anidride carbonica, per un tempo variabile da qualche ora a più giorni. Si ottiene così una fermentazione in assenza di ossigeno, l’uva viene lasciata a macerare e durante questo periodo l'alcol estrae dall'interno tutte le sostanze aromatiche della polpa. Una procedura molto più veloce di quella tradizionale.
Riccà, ma si’ proprio sicuro che dentre ‘sto cosu se fa lu vine? – mi chiedeva scettico.
L’estate passò, ma io continuai a frequentare per diversi weekend la casa dei miei zii, così il giorno del grande evento eravamo pronti.
Un po’ leggerino ma bono! – disse zio Nando al primo bicchiere – bravo, si’ stato proprio bravo.
Beh... sono soddisfazioni, quando un abruzzese ti dice che sei stato bravo. Per me era come se avessi già vinto.
Il vino “leggerino” diventò un piccolo problema, perchè al primo bicchiere seguì un secondo e poi un terzo, fino a scolare l’intera bottiglia. Insomma ci ritrovammo alla sfida che mio zio era  completamento brillo.
La giuria era composta da Sandro il farmacista, Peppino il maresciallo della stazione dei carabinieri e Don Bruno, il Parroco del paese.
Ognuno di loro con gli occhi bendati avrebbe dovuto assaggiare prima un bicchiere di un sfidante e poi dell’altro, per tre volte, fine a decretare il vincitore.
Quando arrivammo mio zio insultò subito Marione.
Panzone  puzzolente teni lu vine fatto con le cartine, mo sentirai lu vine bono veramente.
Ma che ne sai tu! Si’ capaci solo a metti li timbre insù le carte au Ministere. (si riferiva al fatto che mio zio era un dipendente del ministero del tesoro).
I song cavaliere del lavoro, hai capito!
Tu si’ solo un raccomandato.
Sembravano due pugili prima di salire sul ring.  Cassius Clay contro Frazier. Mio zio saltava come se stesse ballando la tarantella, girava intorno a Marione, che, come un Mammut avanzava a testa bassa.
Don Bruno cercò di fare da paciere mettendosi in mezzo tra i due.
Boni. Fate li bravi, che Sant’Andrea vi guarda.
Allora, lo vogliamo assaggiare ‘sto vino – si intromise anche il farmacista.
il Maresciallo senza dire niente se lo era già versato e beveva atteggiandosi esperto sommelier. Faceva dei versi con la bocca, mentre roteava il bicchiere con il vino.
Mmm… buono, gusto fresco, leggermente acidulo, sentori di mela – disse.
Nel gruppo di persone che si accalcavano vicino al tavolo della sfida c’era anche una ragazza, si nascondeva dietro un ciuffo di capelli biondi. Alta, magra, con i pantaloncini e la divisa da boy scout, guardava con l’aria spaesata di chi fosse capitato là per caso.
Solo dopo venni a sapere che si chiamava Teresa ed era la figlia di Marione.
- Maresciallo, ma cosa ha bevuto?  Quella era una bottiglia che mi aveva regalato il farmacista – tuonò Don Bruno alla vista del carabiniere-sommelier.
- No! Così si inficia tutto – sentenziò il farmacista –  adesso il palato è stato sensibilizzato da un altro sapore.
Basterà che beva un po’ d’acqua – provai a intervenire.
Se volete ho qua la mia borraccia – disse la ragazza con una vocina tremolante.
Come acqua! – gridarono all’unisono quasi tutti i presenti.
Brava – risposi avvicinandomi a lei fino a toccarle le mani. Eravamo uno di fronte all’altra e tenevamo insieme la borraccia, mentre la guardavo.
– Sti’ luntane dalla mi fija – urlò Marione. L’energumeno si liberò dalla stretta di Don Bruno, agitò le braccia come pale di un mulino a vento e si lanciò verso di me.
Il maresciallo cercò di fermarlo peggiorando la situazione. Lui tentò di scartarlo con una finta degna di un giocatore di rugby, nel movimento travolse però il tavolo. Tutte le bottiglie della gara caddero a terra fracassandosi; il vino colorò di rosso il pavimento.
A quel punto successe un fatto strano. Voi non ci crederete, ma una luce fortissima s’irradiò dal liquido che colava dai frantumi di vetro, illuminò tutta la sala, bloccò in un silenzio irreale le persone e si posò sopra di noi.
Non so per quanto tempo tutti rimasero fermi e muti.
Teresa la boy scout, la figlia di Marione, il ciuffo biondo mi sorrise, si avvicinò e la luce ci ricoprì di bianco, un bagliore dalle sue mani si propagò nelle mie, sentii come una scossa dalle labbra attraversarmi il corpo.
Poi luce andò via e si udì un: – Nooo! – prolungato da parte di giudici, spettatori e concorrenti.
Tutti furono presi dalle bottiglie cadute e nessuno fece più caso a noi.
Su indicazione di Don Bruno e avvallo del Maresciallo si decise di annullare la sfida. La festa però continuò, la folla fu attratta dall’albero della cuccagna e dal prosciutto intero messo in palio. Alla fine io e Teresa, mano nella mano, andammo come tutti in processione dietro al Santo.
Ecco, questa è la storia del mio primo bacio, avvenuto grazie a un miracolo.
Ricordo che passai l’estate successiva a chiedere anche a lei se era più giusto dire Abruzzo o gli Abruzzi, senza avere una risposta.
Sarai pure bravo a fa lu vine, ma a baciare si’ proprio imbranato – mi diceva, e io la guardavo innamorato.
Le donne, anche quelle abruzzesi, hanno sempre una marcia in più.

  


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