Biblioteca di Rescaldina - 11 giugno 2017 - sull'argomento "La principessa" Marina Fichera ha scritto questo divertente racconto
Un caldissimo
pomeriggio di fine giugno. Piazza Duca d’Aosta piena di strana gente. Palloncini colorati,
striscioni e bandiere arcobaleno, petti nudi, tatuaggi, lustrini e famiglie con
bambini in passeggino. Tutti mischiati a
marciare e sudare insieme.
Peppino Franza aveva
il cervello che gli ribolliva sotto il cappello da vigile urbano. Lui non era
più attivo sulle strade da anni, da quando si era rotto un malleolo in servizio
e non riusciva più a stare molto tempo in piedi. Quel sabato però era prevista
un’enorme manifestazione a Milano, e le nuove norme di sicurezza anti
terrorismo avevano richiesto un intervento massiccio di polizia locale,
carabinieri e finti poliziotti in salopette di pelle nera.
Peppino, calabrese di
un piccolo paese nell’entroterra crotonese, si era trasferito da adolescente
con i genitori a Cologno Monzese, a quattro poveri passi da Milano. Lì si era
diplomato e in seguito era entrato, quasi 38 anni prima, nel corpo dei vigili
urbani. Era diventato un vero ghisa, anche se in fondo non si era mai sentito
milanese, anche se i colleghi lo avevano preso in giro per anni.
E ricordava spesso quella volta in cui, mentre staccava una multa a un politico in divieto di sosta, ai tempi in cui la lega più becera governava la città, si era sentito rispondere “Uè che ci fa un ghisa terun, ma sai scrivere? Torna a casa tua che è meglio!”.
E ricordava spesso quella volta in cui, mentre staccava una multa a un politico in divieto di sosta, ai tempi in cui la lega più becera governava la città, si era sentito rispondere “Uè che ci fa un ghisa terun, ma sai scrivere? Torna a casa tua che è meglio!”.
Pochi mesi e sarebbe
andato in pensione, e allora perché sottoporlo a quella tortura? Cosa aveva
fatto di male per essere chiamato a mantenere l’ordine in una manifestazione
così inutile quanto assurda?
Tre enormi camion in
mezzo alla piazza, tutti ricoperti di palloncini e striscioni arcobaleno. Uno a
tema antico Egitto, con decine di ragazzi dai corpi scultorei mezzi nudi a
ballare house music sparata a palla da grandi casse. Uno con un gruppo misto di
ragazze e ragazzi che ballavano e lanciavano allegri slogan per lui
incomprensibili. Il terzo con una decina di eccentrici personaggi che
salutavano la folla.
Peppino era confuso,
anzi no, era molto confuso. Quanti erano in piazza quel giorno? Cinquantamila?
Di più forse? Non aveva mai visto gente così strana mischiata a altrettanta gente
che di strano non aveva proprio nulla. Ecco, la cosa che proprio non capiva era
come queste persone, all’apparenza del tutto normali, potessero essere li in piazza con gli altri.
“Per fortuna che ho
la mia divisa da vigile”, pensava, “se qualcuno mi dovesse scambiare per un ricchione, sai che vergogna!”.
Finalmente le
autorità diedero l’autorizzazione al corteo a partire e l’ordine a tutto il
personale di pubblica sicurezza di iniziare a camminare insieme alla festosa
marea umana.
”Che bellissima
festa!” pensavano i cinquantamila partecipanti quando iniziarono a muoversi.
“Questo non dovevano
farmelo! Questo è mobbing! Ma domani presento la domanda per il pensionamento
anticipato!” pensava Peppino a cui già facevano male i piedi. Il corteo sarebbe
stato chiassoso, festoso, colorato ma soprattutto lungo.
Decise che si sarebbe
fermato all’angolo con via Settembrini e lasciato sfilare un bel po’ di
danzante folla, poi avrebbe seguito il corteo da lontano. E a quell’angolo di
strada, mentre sfilavano felici coppie di uomini mano nella mano, orgogliose mamme
di bambini bellissimi in passeggini pieni di palloncini colorati, uomini con
divise stile “Come si chiama quel gruppo che canta quella canzone che si balla
sempre alle feste agitando le braccia? Uai em e qualche cosa...” la vide. O
forse lo vide. O forse bò. Peppino rimase di sasso.
Sotto un cartello su
cui c’era scritto “Io sono Jolie, una vera Principessa, e tu?” c’era il suo
compagno delle medie, giù in Calabria. Mario, quello grosso o peloso già a
quattordici anni che lo picchiava un giorno si e l’altro pure, non era cambiato
per nulla. Stessa barba nera e braccia villose, solo che indossava un largo
vestito da brasiliana, un turbante con un
cesto di frutta sulla testa, e aveva le labbra e gli occhi truccati. Mario,
detto il bastardo. Mario il maschio alfa che dominava l’intera classe era
diventato pure lui uno di quelli! O
Madonna Santa aiutami tu che qua non si capisce più nulla, più nulla!
Non fece in tempo a
pensare neanche un Ave Maria che la Principessa, o meglio Mario, gli si parò
davanti. “Peppino, Peppino mio bello, ma che ci fai qui? Non sapevo fossi anche
tu a Milano, e ghisa poi!!”
“O cazzo mi ha
riconosciuto, e ora che faccio? Cosa penserà tutta questa gente?” pensò il
povero vigile, cercando di trovare un piano per girare i tacchi e scappare.
Ma la Principessa
insisteva “Come stai Peppinuccio? Spero tutto bene. Sai sono contento che ci
incontriamo, così dopo tutti questi anni ti posso finalmente chiedere scusa.”
Peppino trasalì,
chiedere scusa? Davvero?
“Ciao Mario, non sei
cambiato per nulla in tutti questi anni. Beh, quasi per nulla. Si insomma
volevo dire che ti vedo bene, la frutta in testa ti dona… O mamma mia, scusa, è
che non so che dire!”
“Ma si Peppinuccio
mio, non ti preoccupare, io non sono più Mario il bastardo, quello che ti ha dato
tante di quelle botte quando eri piccolo che sicuramente mi avrai odiato per
anni. E hai anche ragione! Che stronzo che ero, scusami. Ma mi sentivo così
solo, spaventato e confuso, avevo così tanta paura! Sai a sedici anni sono
dovuto scappare dalla Calabria, prima a Roma e poi a Milano dove la vita
all’inizio è stata davvero dura. Ma io ero contento lo stesso, perché qui potevo
essere veramente chi voglio essere. Di giorno Mario dell’ortofrutta “Gioia
Tauro” e di notte Jolie, una vera principessa. Terrona, sia chiaro, ma una
stupenda principessa, piena di gioia, amore e abiti sfarzosi! Ho diritto anch’io
di vivere come desidero. È per questo siamo qui, oggi pomeriggio, tutti insieme
a sfilare tra gli arcobaleni. Per non sentirci più strani unicorni solitari, ma
parte di un’unica società civile. Per dire che esistiamo anche noi e vogliamo
solo essere felici. Mi capisci vero?”
Peppino non aveva
capito molto di quest’ultima parte, ma le scuse, quelle si che le aveva capite.
“Ehm Mario, si, si,
accetto le tue scuse, tra uomini d’onore… bè, più o meno, tra due persone,
diciamo… Scusa sono in imbarazzo. Comunque quando uno si scusa si accetta e si
ringrazia.”
Jolie la Principessa
abbracciò e baciò su entrambe le guance Peppinuccio suo, che sperò con tutta
l’anima che nessuno avesse ripreso la scena col telefonino. Poi le loro strade
si divisero ancora una volta, ma questa volta un sorriso grande come
l’arcobaleno era stampato sui loro volti.
Nessun commento:
Posta un commento