La "riforma" delle leggi sulla migrazione in Repubblica Dominicana fa sorgere qualche interrogativo su possibili derive razziste nel nostro continente.
Davanti all'enorme numero di migranti provenienti dall'Africa e dai paesi arabi in guerra come si comporterà l'Europa? e l'Italia?
A quasi un mese dall'inizio delle deportazioni degli haitiani (17 giugno 2015) dalla Repubblica Dominicana al loro paese d'origine la situazione - che nelle zone turistiche è tranquillissima, nonostante le forti preoccupazioni evidenti della popolazione haitiana - è sempre piuttosto confusa. Il governo dominicano proclama a gran voce il suo diritto di sovranità nazionale per decidere e regolare l'immigrazione, e sostiene di non aver niente da nascondere al mondo, ma l'Organizzazione degli Stati Americani (OEA) ha spedito una delegazione - che afferma di venire "con mente aperta e senza pregiudizi, con attitudine positiva per ascoltare il punto di vista del Governo e delle parti sociali" - a osservare e controllare i centri di accoglienza per migranti senza documenti in regola dopo i giri di vite delle ultime leggi sulla migrazione (vedi articolo di Raùl Zecca Castel che segue).
Nel centro visitato si trovavano lavoratori della canna da zucchero di età compresa tra i 60 e i 70 anni, duecento dei quali hanno ricevuto una carta di identità.
Il Governo dominicano sottolinea che non esiste paese al mondo più solidale nei confronti di Haiti, che la preoccupazione non è soltanto in occasione di calamità e congiunture particolari, ma sempre, " e comincia tutti i giorni quando ci svegliamo" dice il cancelliere Andrès Navarro.
qui di seguito un articolo di Raùl Zecca Castel pubblicato il 10 luglio 2015 in
Osservatorio America Latina e ripubblicato qui col permesso dell'autore
Tempi di rimpatri forzati e deportazioni di massa nella
Repubblica Dominicana, uno dei paradisi turistici più ambiti dai vacanzieri europei e non solo. Vittime di questa moderna tratta politicamente corretta sono migliaia di persone di origine haitiana emigrate verso l’altra metà dell’isola di Hispaniola in cerca di lavoro, così come migliaia di uomini e donne nati in territorio dominicano da genitori haitiani.
Foto di Raùl Zecca Castel, frontiera tra Dajabon e Wanamenthe |
2013 dalla
Corte Costituzionale dominicana – e applicata retroattivamente a partire
dall’anno 1929 -, secondo la quale era da considerarsi abolito il criterio
dello jus soli in riferimento all’acquisizione della nazionalità, da un giorno
all’altro, oltre 200 mila persone, da sempre residenti nel Paese, sono state di
fatto denazionalizzate e rese apolidi, con tutte le conseguenze del caso:
impossibilità di accedere all’istruzione, ai servizi sanitari, al mondo del
lavoro, in sintesi, alla vita civile del Paese.
L’allarmata reazione della comunità internazionale,
che si espresse immediatamente con forti critiche nei confronti di tale scandalo giuridico privo di precedenti e unanimemente considerato come altamente discriminatorio su base razzista, portò il governo dominicano ad attivare un Piano Nazionale di Regolarizzazione degli Stranieri (PNRE) che prevedesse la possibilità di normalizzare la situazione di irregolarità in cui erano improvvisamente piombate migliaia di vite.
che si espresse immediatamente con forti critiche nei confronti di tale scandalo giuridico privo di precedenti e unanimemente considerato come altamente discriminatorio su base razzista, portò il governo dominicano ad attivare un Piano Nazionale di Regolarizzazione degli Stranieri (PNRE) che prevedesse la possibilità di normalizzare la situazione di irregolarità in cui erano improvvisamente piombate migliaia di vite.
Per accedere a tale Piano, tuttavia, veniva
richiesta una serie di documenti, quali ad esempio il certificato di nascita,
la carta di identità, il passaporto ed altri ancora, che ai più risultava
impossibile da procurarsi. La maggior parte dei cittadini interessati dalla
sentenza, infatti, è nata da genitori haitiani che poterono oltrepassare la
frontiera regolarmente ma senza alcun tipo di documento grazie ad accordi
bilaterali che i governi dittatoriali di entrambi i Paesi rinnovarono
ciclicamente per oltre trent’anni, dal 1952 al 1986.
Per primo era stato Rafael Leonidas Trujillo, sopranominato
la tigre dei Caraibi, a reclutare manodopera haitiana acquistandola
direttamente dal presidente Paul Eugene Magloire. Era il secondo periodo d’oro
della canna da zucchero dopo i fasti di fine ‘700, quando la Hispaniola passò
alla Storia come la colonia più redditizia del mondo, la perla delle Antille, e
la Repubblica Dominicana aveva disperatamente bisogno di forza lavoro, meglio
se a basso costo come quella che Haiti poteva procurare in grande quantità.
La fuga dell’ex dittatore haitiano Jean-Claude
Duvalier nel 1986 e il declino dell’industria zuccherificia negli anni ’90 non
bastarono per mettere fine ai flussi migratori che ogni anno, da allora,
investono la Repubblica Dominicana. Così, ora che nei campi le macchine stanno
via via sostituendo le braccia, il Paese ha scoperto migliaia di indesiderati,
scarti umani da rispedire al mittente.
Mercoledì 17 giugno 2015 è definitivamente scaduto il
termine ultimo per la presentazione della domanda di regolarizzazione e i primi
dati forniti dal Ministero degli Interni sono a dir poco allarmanti. Gli
iscritti al Piano sarebbero stati circa 280 mila (su un totale di 534 mila
stranieri, di cui l’87% haitiani) e di questi solo il 2% avrebbe ottenuto
l’approvazione, vale a dire non più di seimila persone.
Ora, al Piano Nazionale di Regolarizzazione degli Stranieri
è prontamente succeduto un altro piano, con lo stesso acronimo, ma di verso
diametralmente opposto: il Piano Nazionale di Rimpatrio degli Stranieri.
Polizia e militari si apprestano dunque a cominciare quella che l’opinione
pubblica mondiale ha già definito come una nuova operazione di pulizia etnica,
finalizzata alla deportazione di migliaia di irregolari oltre la linea di
frontiera che separa due popoli da sempre ostili.
Se da un lato nella memoria
della Repubblica Dominicana è ancora vivo il ricordo traumatico dell’invasione
militare subita nel 1822 per mano dell’esercito haitiano, che unificò l’isola
fino al 1844, sottomettendola al volere del presidente Jean Pierre Boyer,
dall’altro Haiti non dimentica il massacro del prezzemolo, quando nel 1937, in
soli pochi giorni, circa 20 mila haitiani vennero trucidati per ordine del
dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo proprio lungo la linea di
frontiera, in un progetto eugenetico di sbiancamento della razza che pretendeva
di ripulire il Paese dagli immigrati: un progetto folle, eppure mai del tutto
accantonato. Di nuovo, dunque, tempi di rimpatri forzati e deportazioni di
massa nella Repubblica Dominicana.
(Foto di Raùl Zecca Castel,
frontiera tra Dajabon e Wanamenthe)
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