giovedì 19 novembre 2015

“Le fotografie del Titanic” di Claudio Bossi - "Il vizio di scrivere"

25 ottobre 2015 - "Il vizio di scivere" -presso la Biblioteca di Rescaldina (Mi)

Un pezzo giornalistico del più famoso esperto internazionale in materia di Titanic
pagina facebook: Il vizio di scrivere
(prossima giornata in gennaio, seguiteci!)

Nel 1912 la fotografia non era propriamente ai suoi albori, però il fatto di possedere un apparecchio atto ad impressionare episodi di vita non era da tutti.

Tutti conosciamo il Titanic, l’inaffondabile nave più bella e più grande del mondo, come era stata definita dalla stampa di quell’epoca: già all’epoca della sua costruzione, risalente a tre anni prima, abbiamo una ricca e documentata collezione fotografica.

Fu Robert Welch, fotografo ufficiale dei cantieri irlandesi di Harland & Wolff di Belfast, dove il 
gigante dei mari venne costruito, che ci ha lasciato in eredità una ricca iconografia.
Sin dalla posa della prima lastra del Titanic, avvenuta nel marzo del 1909, abbiamo avuto modo di seguire tutto il processo della sua costruzione: sono immagini che lasciano trasparire il modus operandi dei tempi, dove lavorare significava essere impegnati quasi dodici ore al giorno e gli animali da trasporto erano fondamentali aiutanti dell’uomo.
Ma sono anche fotografie cariche di un certo fascino: sarà la lontananza nel tempo che conferisce la patina color seppia agli episodi, storicamente importanti ed emotivamente coinvolgenti, che li rende impregnati di significati dal valore magico e simbolico.
Il fotografo per impressionare quei fotogrammi aveva il suo bel daffare: i risultati, data la scarsità dei mezzi a disposizione, non erano del tutto soddisfacenti e spesso la medesima fotografia dove essere scattata più volte.
Abbiamo avuto modo di vedere foto di particolari veramente inediti e dettagli che oggi sarebbero etichettati come “segreti industriali”: abbiamo così impressi su lastra parti della motoristica (i motori del Titanic erano alti come un palazzo di quattro piani), parti elettriche, quell’elettricità che avrebbe poi fornito l’alimentazione necessaria per inviare il famoso ultimo e disperato SOS attraverso un strumento dovuto al genio di un italiano. Questo per rimanere in ambito strettamente tecnico.


Ma Robert Welch ci ha lasciato anche un vasta documentazione fotografica di quelli che erano gli ambienti dei cantieri di lavoro (memorabile la sua fotografia che inquadra l’uscita di alcuni dei 14mila operai dalla fabbrica al termine del turno di lavoro riversarsi nella strada del capoluogo irlandese al termine del turno di lavoro, con l’imponente prua della grande nave in allestimento a fare da sfondo).
Raramente però era in uso ritrarre persone, soprattutto in primo piano: se questo avveniva ciò era esclusiva di uno studio fotografico e per le “grandi occasioni”. Per i bambini, manco a dirlo, era un avvenimento per fare festa e abbigliarsi in modo consono, date le ristrettezze dei tempi.


Era consentito fotografare, persone intente alla propria prestazione d’opera: la “privacy” sarebbe arrivata dopo quasi un secolo. Ed ecco così un’altra celeberrima fotografia in cui si vedono degli operai con indosso il classico basco mentre lavorano sull’elica dell’enorme transatlantico. E cito questa fotografia non a caso: infatti è fonte di autorevoli discussioni fra gli storici perché rappresenta un primo tentativo di Photoshop, seppur rudimentale dei tempi. Ad attento esame si può notare come proprio innanzi all’asse dell’elica vi è la figura di un uomo, di un uomo cancellato. Sembra proprio che la figura di questa persona sia stata “grattata” via!

Che già in quei primi anni del Novecento la fotografia non fosse ancora stata perfezionata era facile da intuire anche dalle immagini riprodotte dagli stessi quotidiani coevi. Mi sovviene una precisa immagine che riproduce la lussuosa - non poteva essere altrimenti parlando di Titanic - sala da pranzo di prima classe della nave.
Nella fotografia riprodotta dal quotidiano si vede chiaramente il volto di una donna ritratta nel salone sopraccitato. Facendo le pulci, cosa di cui molti dei miei lettori affermano che sono maestro, ho trovato l’originale della riproduzione fotografica. Essa rappresenta indubbiamente la sala da pranzo di prima classe del grande piroscafo della compagnia navale White Star Line, ma in luogo di quell’immagine femminile vi è un’enorme macchia. Macchia dovuta all’imperizia o all’incuria del fotografo che forse si è lasciato scappare qualche salsa del suo sandwich sulla fotografia. Ma questi esempi dimostrano, in modo evidente, di come piccoli e grandi  ritocchi fotografici, erano già in uso a quei tempi.

Volgendo l’attenzione alla fotografia in senso lato, debbo dire che mentre il signor Welch ci ha lasciato testimonianza della costruzione del Titanic con un ricco archivio di quasi cinquecento immagini, tutte doviziosamente catalogate e archiviate, devo dare una tiratina d’orecchie a questo fotoreporter dei tempi andati. Non si ha nessuna documentazione fotografica  ufficiale degli splendidi e sfarzosi interni di questa nave, che è diventata un mito ma anche un emblema dell’arroganza umana.



In tanti hanno avuto modo di vedere, gironzolando qua e là su internet piuttosto che sulla ricca bibliografia dedicata al Titanic (compreso il mio libro), le immagini dell’elegante scalinata che tanto ha fatto sognare le nuove generazioni, che abbiamo avuto modo di apprezzare nell’omonimo kolossal cinematografico “Titanic” di Cameron quale luogo d’incontro dei due protagonisti. Ebbene quella fotografia fu scattata a bordo della nave gemella del Titanic, ossia a bordo dell’Olympic.



E se Welch non ci ha lasciato in eredità (o forse fu una precisa scelta aziendale) qualche foto degli interni della nave più bella e più grande del mondo, ci hanno pensato due passeggeri di prima classe a scattare qualche immagine che rappresentasse le sontuose bellezze di quel piroscafo, eletto a simbolo di quell’epoca del tutto bello e del tutto grande che fu la Belle Epoque.

Uno di questi era un sacerdote, salito a bordo del Titanic in virtù di un regalo che gli aveva fatto un parente  che donò un apparecchio fotograficoa Frank Browne, questo il nome dell’uomo di chiesa.
Padre Browne immortalò tutto il fotografabile, possibile e immaginabile. Fu lui l’autore del “servizio fotografico”, come si direbbe oggi in termini giornalistici, del mancato incidente avvenuto alla partenza della nave dal porto inglese di Southampton.
Per la cronaca, mancato incidente che vide protagonista il Titanic e una piccola nave, dal nome evocativo di New York.
Ma Padre Browne riuscì a regalarci anche accurate immagini dell’eleganza e dei decori che contraddistinsero quel mondo scintillante di cristalli, di sete, di fiori che erano i saloni di prima classe, la sala fumatori, la sala di lettura, il Cafè Parisien e la palestra. Ci regalò anche momenti di vita a bordo ritraendo spensierati passeggeri sui ponti e un bambino intento al gioco della trottola, sotto lo sguardo vigile della propria nurse. Antesignano dei tempi moderni ci regalò una sorta di primo selfie scattato a bordo della sua cabina: nello specchio, addossato al comò, si può intravedere la sua sagoma…

Il reverendo, che rimase a bordo del Titanic giusto ventiquattr’ore nella prima tratta che il transatlantico fece quindi Southampton-Cherbourg- Queenstown, immortalò anche quella che si ritiene l’ultima fotografia della nave prima di volgere la prua in 

mare aperto, in Atlantico.



A bordo del Titanic c’era anche un famiglia, gli Odell: padre, madre, figlia e figlio. Era quest’ultimo, Jack Odell, un ragazzo poco più che adolescente, l’appassionato di questo strano apparecchio, atto a impressionare e riprodurre attimi di vita. Il giovane Jack, non si limitò a fotografare parti della nave, si spinse anche ai piani inferiori dove c’era la piscina di bordo, una vera e propria novità a bordo di una nave. Si ritiene, ma non ci sono le prove, che sia opera sua l’ultima fotografia scattata al capitano Smith quando egli, di spalle rispetto al fotografo, si allontana dal ponte, quasi per dirigersi verso quella che sarebbe diventata la vanagloria imperitura…

Non è quindi giunta a noi invece la documentazione fotografica della spensierata vita che si svolgeva a bordo durante la breve esistenza della nave: gli unici fotografi fecero entrambi scalo e vissero la tragedia come uno scampato pericolo.


A noi sono giunte immagini di quello che si ritiene l’iceberg assassino: al di là della bella documentazione fotografica, fatta in condizioni poco felici (lascio immaginare il lettore il freddo che si poteva patire in quelle zone), rimane indubbiamente il fascino misterioso di aver fotografato terre e banchise inesplorate dall’uomo, almeno fino allora. Iceberg quasi oggetti benevoli nel loro aspetto, ammantato del bianco candido della neve che li ricopre, ma altrettanto infidi per l’uomo di mare che percorrere quei tratti, specie di notte. Titanic insegna.

Va da sé che gli anonimi fotografi di queste meravigliose sculture di ghiaccio e neve che la natura nella sua innocenza ci offre, quando fotografarono queste montagne galleggianti erano del tutto ignari dell’immane tragedia che si era consumata.
Un vero e proprio scoop: sicuramente se qualche giornale o rivista se ne fosse accorta  avrebbe coperto di bei bigliettoni verdi il fortunato e audace fotografo.
E poi il giorno dopo la tragedia vi è una altrettanto fornita documentazione iconografica. Da bordo della nave soccorritrice Carpathia vennero scattate fotografie che nella loro crudezza fanno venire ancor oggi la pelle d’oca, a distanza di 103 anni da quell’evento. Barchette in balia degli eventi (che piccole non erano se potevano accogliere 65 persone) fotografate tra i ghiacci alla deriva. Immagini che racchiudono freddo e gelo, ma cariche anche di umanità e volontà di sopravvivenza.


E poi le immagini delle persone sopravvissute al dramma: uomini, donne e bambini fotografati sui ponti della nave con quei quattro stracci e con quelle poche coperte che si era riusciti a recuperare. Immagini simili a quelle che quotidianamente i media ci mostrano con gli sbarchi degli immigranti sulle nostre coste. Allora, come oggi, la fotografia, più di ogni altra parola, ci ha aiutato ad immaginare il dramma vissuto, la“vita in diretta”.



La fotografia ci ha offerto l’opportunità di salire e di vivere a bordo del Titanic e ci ha reso partecipe di una delle più grandi tragedie del mare che l’uomo possa raccontare, il primo evento mediatico mondiale, grazie alla fotografia, in grado di imprimere un segno profondo ed indelebile nell’immaginario. Un’epoca e di un’intera società che annegò tragicamente assieme ai suoi sogni e alle sue illusioni, entrando poco dopo in quell’incubo che fu la Prima Guerra Mondiale.

  







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